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recensione di Benvenuto, S., L'Indice 1987, n. 4
Negli anni '70 in Italia (e oggi in America) infieriva una sorta di anatema morale sui "libri francesi". Come nel '700 e nell"800, quando al solo parlare di "libri francesi" (cioè Voltaire, Rousseau, Laclos, ecc.) ci si faceva il segno della croce, e svenivano le signore. I libri proibiti sono quelli del post-strutturalismo- Foucault, Derrida, Barthes, Lacan, Lyotard, e qualche altro. Pur essendo questa vague allora alla moda, se ne stigmatizzava lo stile barocco, il radicalismo disincantato, il "romanticismo testualista" (secondo le parole dell'americano Rorty): la Bisanzio parigina, coacervo di perversioni antiche e nuove, era insomma colpevole di sottrarsi, per lo stile e per il fondo, alle convenzioni delle procedure retoriche positiviste, ormai dominanti nella mentalità comune.
Un autore in questo senso particolarmente scandaloso, come è noto, è Lacan, del quale l'editore propone alcuni scritti mediti in Italia, con il titolo "Il mito individuale del nevrotico" che riprende il titolo del primo saggio, una conferenza tenuta da Lacan nel 1953. Segue il "Discorso di Roma" del 1953, che per ogni lacaniano come si deve è una sorta di scena primaria dell'insegnamento di Lacan: in quella occasione difatti lo psicoanalista francese lanciò il "manifesto" e i capisaldi del suo pensiero, arcinoti ormai nella forma di slogan succosi ("l'inconscio è strutturato come un linguaggio", "il desiderio dell'uomo è il desiderio dell'Altro", ecc.) Fu anche il manifesto di fondazione della Società di psicoanalisi, cioè della prima scissione importante del freudismo francese - la prima di una lunga serie, che vide sempre Lacan come protagonista o pomo della discordia. Seguono "Intervento al primo Congresso mondiale di psichiatria" ( 1950) e "Rendiconti d'insegnamento".
Avvertiamo subito che questi testi non presentano le difficoltà talvolta invalicabili degli scritti di Lacan, provocatoriamente oscuri. Forse perché si tratta, più che di scritti, di "discorsi" e la parola di Lacan - oggi accessibile in italiano attraverso la pubblicazione, da Einaudi, dei "Seminari" - testimonia invece di una pazienza didattica senz'altro paterna.
Anzi, come ha sottolineato qualcuno, l'insegnamento di Lacan per molte persone è stata un'occasione unica per farsi una cultura, se non altro perché questi seminari sono ricchi di riferimenti sempre pertinenti, ma mai scontati, alle regioni più disparate dallo scibile, dalla filosofia alla logica, dalle matematiche alla letteratura.
Grazie alla vastità sorprendente del suo sapere, e al fascino magnetizzante della sua oratoria, Lacan con i suoi seminari generà-in particolare nella "Parigi ruggente" (ormai lontana) dello strutturalismo-una delle più brillanti e promettenti macchine di seduzione intellettuale degli ultimi decenni. Invece ciò che rende indigesto Lacan a certi analisti - sin dal succitato "Discorso di Roma" - non è tanto lo stile (gli scritti di W. R. Bion non sono meno astrusi, eppure questo autore inglese è ormai il maestro egemone nel freudismo ortodosso italiano) quanto quella sua teoria dell'inconscio che concede molto poco al patetismo delle emozioni ineffabili, alla dittatura sentimentale dei narcisismi, al romanzo rosa dell'idillio transfert/ contro-transfert e delle "ragioni del cuore"; a tutto il kitsch così caro agli analisti dal cuore gonfio. Ricorda quello che scrive Kundera: "Quando ha parlato il cuore, non è conveniente che la ragione sollevi qualche obiezione. Nel regno del kitsch si esercita la dittatura del cuore". L'opera di Lacan a tanti è odiosa (non è stato forse tacciato sulla stampa italiana di Tartufo, di buffone, di filosofo da operetta?) perché è apparsa come un inflessibile distanziamento dal kitsch psicoanalitico.
Ovviamente un pensiero animato da una personalità così forte rischia di funzionare, per gli allievi più fragili o più zelanti, come Vangelo. Tanto più che la diffusione pubblica, mondana, di questo Vangelo è stata soprattutto Atto degli Apostoli. Di Ciaccia raccoglie nel suo libro alcuni scritti degli "apostoli": innanzitutto "Schede di lettura lacaniana" di Jacques-Alain Miller, considerato erede dell'Ècole di Lacan, e instancabile promotore del suo pensiero, poi due scritti di Michel Silvestre (uno sul transfert analitico, l'altro sulla funzione del padre in psicoanalisi), e uno di Colette Soler (sulla formazione degli analisti e sui problemi istituzionali connessi). Nell'insieme, si ha l'impressione che questa raccolta segni un momento particolare della "politica estera" dell'Ècole de la Cause freudienne: quello della ricerca di un dialogo. Non solo con il pubblico italiano, volubile e capriccioso, ma anche con il freudismo sedicente ortodosso: uno sforzo di spiegare Lacan agli estranei, a chi non fa parte della parrocchia.
Non dimentichiamo però che i lacaniani guidati da Miller non si sono rassegnati al fatto che la loro organizzazione sia tra le tante fiorite attorno al tronco freudiano. Essi sono convinti che inevitabilmente tutta la pratica analitica verrà comunque trasformata dalla sola esistenza di Lacan, così come non è stato più possibile, dopo Kant, fare filosofia come prima di Kant; o come non è stato più possibile, dopo Freud guardare alle motivazioni umane nello stesso modo. Dietro la promozione di una scuola, si annida un'ambizione profetica, un'attesa trionfalistica.
Sottolineo che il saggio di Silvestre sul transfert tratta di problemi clinici. Questo perché da tempo imperversa sul lacanismo una critica ormai rituale: che Lacan è sì un pregevole teorico, ma debole sul piano clinico; non a caso ha parlato di rado dei propri casi clinici. Questa tesi è una rivalsa su una fortuna di Lacan: il fatto che, a parte Freud e Jung, sia stato il solo psicoanalista ad esser stato preso sul serio al di fuori della cerchia degli analisti, e di aver "sfondato" tra le tribù filosofiche. In effetti, nessuno dei grandi innovatori della psicoanalisi ha trovato un simile credito sulle piazze più vaste e trafficate della cultura. Eppure, l'analista creativo che non fa il piedino all'arte, alla letteratura, e alla filosofia, scagli la prima pietra. L'astrattezza, la mancanza di concretezza, il disprezzo per le supposte evidenze della clinica, in psicoanalisi sono sempre i difetti degli altri, cioè delle scuole rivali.
Un freudiano ortodosso troverà astruso il clinico lacaniano che, per spiegare i guai della gente "incasinata", fa ricorso al "buco", alla mancanza, al nodo Borromeo, alla metafora paterna; dal canto suo, un lacaniano troverà astratta la ricostruzione, per esempio, di un kleiniano basata sul seno-gabinetto, sulle basic assumptions, sulla Mente come contenitore-contenuto, ecc. Ciò che invece è davvero originale nel lacanismo (non in Lacan) e una sua certa propensione al successo "kulturale" (nel senso tedesco di Kultur). Per esempio, un fortunato rotocalco lacaniano, "l'Ane", in Francia va così a gonfie vele che se ne farà un'edizione italiana. È un mensile di cultura varia, dove i fatti sono visti attraverso l'angolatura, un po' astigmatica, della psicoanalisi à la Lacan.
In effetti, (non è una critica) i lacaniani più meditativi dovrebbero riflettere sul paradosso che proprio il pensiero di Lacan, noto per la sua assoluta mancanza di indulgenza verso le scorciatoie della divulgazione, per il suo disperato rigore, si presti a un lancio mass- mediologico e 'rotocalchesco' molto più di qualsiasi altra corrente psicoanalitica. Probabilmente ciò è una conseguenza oggettiva dell'etica avanguardistica del pensiero lacaniano. Il futurismo, il surrealismo, e altre avanguardie artistiche, proprio per la loro rottura provocatoria nei confronti delle istituzioni consolidate, hanno trovato nella libera vitalità del mercato (e del mercantilismo) uno sbocco alternativo e remunerativo alle suddette paludate istituzioni. Non a caso, del resto, Lacan giovane fu molto vicino ai surrealisti. Come il surrealismo degli anni '20 e '30, anche il lacanismo ha oscillato tra il marxismo duro e il liberalismo smaliziato e imprenditoriale.
Intanto, il lettore che conosce bene il francese, dopo aver letto questa "introduzione" lacaniana, potrebbe approfittare di qualche amico che abita a Parigi per farsi mandare una copia di "L'Ethique de la psychanalyse", édltions du Seuil, uscito di recente. Perché è in assoluto il più bel seminario di Lacan, che contiene tra l'altro alcune tra le pagine migliori della letteratura francese di questo secolo.
Dal "Discorso di Roma" all'"Ethique" si delinea la robustezza di un autore del quale possiamo dire ciò che Nietzsche disse di Haendel, Leibniz, Goethe e Bismarck: "Vive senza inciampi in mezzo al contrasti, pieno di quella elastica forza che evita le convinzioni e le dottrine, usandole invece le une contro le altre per riservarsi in retaggio la libertà".
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