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Anthony Pagden è un brillante professore di "scienza politica e storia" presso la Ucla (Los Angeles). Esperto di imperi e di postcolonialismo, si è cimentato questa volta con il grande tema del conflitto fra Oriente e Occidente. All'origine di questo corposo libro ci sono due impressioni personali: la prima è un'osservazione della consorte, la classicista francese Giulia Sissa, che vedendo sul giornale la foto di un gruppo di iraniani prostrati in preghiera, osservò: "Che ironia, era proprio questa abitudine di prostrarsi che più indignava i greci nei confronti degli antichi persiani"; la seconda, più personale, è il ricordo choccante per l'autore delle rovine dell'antica capitale armena di Van, distrutta dai turchi nel 1894: "Lì ho capito la ferocia del conflitto etnico e ho potuto vedere l'enorme divario che ancora oppone Oriente e Occidente".
È vero che la retorica dell'introduzione a volte prende la mano, ma in questo caso i due passi riescono a illuminare bene le caratteristiche di fondo del libro: l'anacronismo e la tendenza a ipostatizzare un Occidente irreale, da sempre democratico e rispettoso della legge, contro un Oriente altrettanto immaginario di dominazioni tiranniche e di religioni sanguinarie. Solo a prezzo di queste astrazioni si poteva ricostruire un "conflitto di 2500 anni" che inizia dall'antica Grecia per arrivare all'Iraq di Bush. Un conflitto che per Pagden, bisogna dirlo, è stato più volte cercato dall'Occidente, specialmente nell'ultimo decennio, con il tentativo, che l'autore condanna, di esportare con la forza la democrazia in paesi che non l'hanno mai conosciuta e mai ricercata. Tuttavia le radici culturali di questo conflitto sono rintracciate da Pagden in un'astorica e atemporale incapacità dell'Oriente di accettare il governo liberale e i "valori dell'Occidente": prima per colpa dei persiani, sordi ai richiami degli ateniesi a cambiare regime, poi per colpa dell'islam, una dottrina che non distingue fra politica e religione, fra stato e sacerdozio, e impone una forma di soggezione dell'individuo a Dio, da tempo assente (?) in Occidente.
È chiaro che categorie così generiche sono irrintracciabili nella realtà storica e anche i lunghi capitoli sulla storia antica, costruiti apparentemente sulle fonti (verrebbe voglia di vietare, in certi casi, l'accesso diretto ai testi antichi, soprattutto a Erodoto), sono in realtà delle estrapolazioni non contestualizzate di ideologie vaganti, ora dei greci, ora dei romani, ora di Maometto (il capitolo forse più debole di tutto il libro). È un modo di procedere tipico di un certo ambiente di scienza politica che usa la storia come un enorme serbatoio di fatti da riordinare secondo schemi geo-politici prefabbricati. In realtà questi scienziati politici (e Pagden fra loro) non sono interessati alla storia, né all'Oriente e neanche alle società musulmane: a loro importa inquadrare il sistema delle relazioni Ovest-Est in grandi affreschi cronologici che legittimino le ideologie "orientaliste" come prodotto della storia. Anni luce dai più recenti studi storico-antropologici sulle società antiche, ma anche dagli scritti ormai classici sui "rapporti con l'altro", che qualche influenza sugli storici l'hanno pure avuta, da Said a Todorov, da Amselle a Goody. Forse da una lettura di questi testi Pagden avrebbe imparato che le "ironie della storia" non esistono e che un "persiano prostrato" è un'altra cosa da un "musulmano in preghiera".
Massimo Vallerani
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