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Libro breve ma intenso che ha lasciato il segno.
Viaggio introspettivo, riscoperto fra i taccuini di un uomo discreto, un apicultore ritiratosi a vivere in solitudine. Costui scopre di avere una grave malattia ma, ricevuta la lettera dall'ospedale, prende una strana decisione...
Ho acquistato questo romanzo svedese nell'ambito di un mio percorso di esplorazione della letteratura nordica. Sono stata spinta dalla curiosità ed ho trovato una scrittura al contempo lieve ed incisiva, una struttura ed una storia assai originali, una chiave di lettura personalissima, tuttavia universale del vivere, della sofferenza, della dedizione e della capacità di fare delle scelte. Buona lettura a chi volesse lasciarsi affascinare da queste pagine.
Recensioni
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GUSTAFSSON, LARS, Preparativi di fuga, Iperborea, 1991
GUSTAFSSON, LARS, Morte di un apicultore, Iperborea, 1989
recensione di Koch, L., L'Indice 1992, n. 1
Se non fosse lì a rubarmi l'attacco l'acuta introduzione che Carl-Gustaf Bjurström ha scritto per i racconti di Gustafsson del 1967 ("Preparativi di fuga"), avrei voglia di cominciare così. Come i suoi amici Umberto Eco e Hans Magnus Enzensberger, Lars Gustafsson è uno scrittore molto intelligente, molto sottile, molto colto. Anche troppo. Le recensioni ai suoi libri, sempre molto rispettose, ripetono però le stesse lamentele: tutte quelle citazioni di Baudelaire e Benjamin, tutti quei riferimenti a Wittgenstein, Wilhelm von Humboldt e alla fisica dei quanti. Ma a spiazzare i lettori è soprattutto il fatto che la distanza fra il piano delle parole e quello delle cose narrate - il caratteristico sdoppiamento epistemologico degli ultimi decenni - diventi addirittura il tema principale di molti libri. Allo stesso tempo in cui Gustafsson osserva le condizioni del mondo visibile, le mette radicalmente in discussione, nel momento stesso in cui lo rappresenta, si pone insieme il problema della consistenza del reale e quello della sua possibile rappresentazione. E se Gustafsson fosse così intelligente da antevedere, e da sfruttare senza scrupoli anche l'irritazione del lettore per tutta la sua sapienza, per tutta la sua lucidità? Se delle colpe - dell'arroganza - dell'intelligenza si facesse un sistema e una forza, come accade per un'altra sua tendenza molto notata (e molto criticata) dai giornali: l'ostentato, sistematico egocentrismo che non solo gli fa dare il suo nome, la sua data e il suo luogo di nascita a tutti i protagonisti del ciclo di cinque romanzi che costituisce, ancora oggi che tanti altri, in direzioni molto diverse, se ne sono aggiunti, il suo lavoro più ambizioso ("Le crepe nel muro", 1970-76); ma lo autorizza, per esempio, a disseminare dappertutto oltraggiosi prelievi grezzi direttamente dalla sua stanza di lavoro, o dal tavolo dove fa colazione con la moglie e i figli: impressioni, frasi di conoscenti di passaggio, letture del momento, fuggevoli riflessioni? I giochi sull'io, l'ostentazione e la dissimulazione della voce parlante sono in realtà una sperimentazione, condotta in 'corpore vili' dalla stessa persona dello scrittore, sull'identità oltre e sotto il soggetto. "Essere solipsisti presenta certi vantaggi. / Scompaiono per esempio tutti i problemi / della 'sfera privata', oggi così di moda", scrive Gustafsson in una poesia, e un suo critico (Per Quale): "Il metodo centrato sul soggetto - egocentrico - di Gustafsson gli fa usare l'io come uno strumento di indagini sul suo tempo, uno strumento che continua ad accordare man mano che gli tende l'orecchio. L'io rispecchia, riflette - o meglio: filtra - il fenomeno. Sembra un truismo, dato che lo stesso vale per ogni scrittore. Ma Gustafsson non trascura e non nasconde il fatto. Se ne fa un punto d'onore. Ostenta lo strumento, fa vedere com'è e come funziona". L'operazione sull'io è tanto più paradossale, e quindi tanto più interessante, se si ricorda che Gustafsson comincia a scrivere mettendo radicalmente in dubbio, con l'estremismo dei vent'anni, appunto la tenuta e l'autonomia del soggetto. "Che tu esista non è evidente; al contrario, è una cosa stranissima, che può cessare in qualunque momento" ("I fratelli", 1960). "Non esistono qualità sostanziali e accidentali. Esistono solo qualità, vestiti, costumi, e niente sotto. L'esistente è un fascio di qualità ("Gli ultimi giorni e la morte del poeta Brumberg", 1959). Non è soltanto l'identità personale a venire sradicata e sospesa, ma la stessa consistenza del mondo cosiddetto reale. L'oggetto non è meno ambiguo, sfuggente, enigmatico del soggetto. In rivolta contro il malvezzo della lirica intimistica, le molte raccolte poetiche di Gustafsson parlano di cose e di fatti, minuti e "strani". Oggetti insoliti, macchine bizzarre "d'acqua e di fuoco", esperimenti, avventure verso l'alto e verso il basso, curiosità storiche, meteorologia, areostati, "viaggi al centro della terra" e l'"arte di far volare gli aquiloni". Il dubbio psicologico sui confini e sulle ambiguità della rappresentazione si allarga a un dubbio filosofico sui confini e sulle ambiguità delle cose.
Per portare alla luce l'incongruità teorica dell'esistenza, Gustafsson sceglie l'espediente retorico di una mistificante lucidità e precisione, seminando nei suoi apologhi metafisici un'abbondanza di dati e di particolari fintamente esatti. Nel più borgesiano, e più bello, dei racconti di "Preparativi di fuga", si parla per esempio di una paziente ricerca in biblioteca, svolta su carte e incisioni di età differente dell'antica città polacca Thorn, intorno a una certa casa "con un tetto singolarmente alto e appuntito, rivestito di rame verde"; che compare con varianti su alcune vedute, ma scompare alla fine dell'indagine e probabilmente non è mai esistita. L'influenza diretta di Lacan si combina qui con la tradizione del grande scetticismo empirista europeo, di cui Gunnar Ekelöf (uno dei maestri a cui guarda la poesia di Gustafsson) è stato, in Svezia, l'ultimo e più drastico esponente: "Che cosa credi? Di cantare? Scordatelo! / ... in realtà non sei nessuno". Le conseguenze sono, naturalmente, che nel dibattito europeo sulla morte del romanzo, appunto fra gli anni cinquanta e sessanta, Gustafsson prende risolutamente parte per l'impossibilità teorica di una narrazione articolata intorno a uno o più personaggi centrali. Nel fertile scambio di opinioni con il collega Lars Bäckström ("Nove lettere sul romanzo", 1961), dichiara, infatti, estinto per sempre il grande romanzo realistico dell'Ottocento ("teso a dare l'illusione di una realtà obiettiva che non esiste"); ma attacca, allo stesso tempo, le scelte del 'nouveau roman' come un'arrogante rinuncia ai compiti della narrazione: l'interpretazione e la conoscenza.
Nonostante tutti i suoi prestiti da Borges dunque, Gustafsson non ne condivide l'idea centrale del mondo e dell'io, come effetto e prodotto della letteratura. Lo scopo della letteratura, al contrario, resta sempre e comunque la scoperta di nuove prospettive, di aspetti impensati appunto del mondo e dell'io. "Il mondo misurabile ha due metà, e noi ne conosciamo una". Chiama in aiuto Bertrand Russell (Gustafsson ha studiato a Oxford logica e filosofia del linguaggio), che distingue fra una 'knowledge by description' e una 'by acquaintance'. Se Proust parlava di una "memoria del corpo", Gustafsson propugna una "conoscenza del corpo": diretta, immediata, al di là della parola; dolorosa, ma liberatoria ed efficace. È questa la lezione di certi suoi mitologemi ricorrenti: il giocatore di tennis, i marinai finlandesi ubriachi, gli agili adolescenti pieni di foruncoli, gli zii stravaganti, le eleganti zie che scappano a condividere la vita sotto i ponti dei barboni.
È proprio per la via di questa "conoscenza per frequentazione" - impersonale come l'esistenza, cieca come il corpo, buia come la lingua - che Gustafsson, dopo aver sostenuto a lungo l'impraticabilità del romanzo (sostituito dall'apologo, dal racconto-saggio, dal frammento, dal breve biogramma"), prova negli anni settanta a reinventare - per improvvisi spostamenti di prospettiva, rotture di stati d'animo e fluire divagante del pensiero - una disorganica, e quasi inorganica, narrazione lunga.
La civetteria del "solipsismo", dunque, insegna soprattutto la spersonalizzazione. "Parliamo - scrive in una poesia del 1980 - e le parole ne sanno più di noi. / Pensiamo e ci vediamo davanti quello che abbiamo pensato / come se quello che abbiamo pensato sapesse qualcosa / che noi non sapevamo". Non siamo che "delle voci prese in prestito dalla lingua". La civetteria dell'intelligenza a sua volta, che aveva cominciato con l'insegnare una disperata frivolezza e la mobilità dell'ironia e del distacco, si rovescia, sorprendentemente, nel suo opposto: in una strana elementarità, in una concretezza appassionata, in un'attenzione all'immediato e al "basso" che insegna a vedere, negli oggetti più umili, nei casi più dimessi, la grandiosa "tenebra gnostica" che percorre l'universo.
Il particolare "fantastico" di Gustafsson consiste dunque nella scoperta che l'inaudito abita nel triviale, e le astrazioni nell'elementare e materiale, che il mistero si annida in mezzo e sotto ai frammenti del percettibile, "nei buchi rossi del corpo" ("Brumberg") e nei "buchi neri dell'anima", come si dice in "Morte di un apicultore", l'ultimo e il migliore dei romanzi delle "Crepe nel muro". "In fondo a ogni uomo c'è un enigma nero come la notte. Il buio della pupilla non è altro che la notte vuota di stelle, la tenebra in fondo all'occhio non è altro che la tenebra stessa dell'universo". Come gli individui, come la specie, i romanzi hanno un inconscio. E questo inconscio ha un colore, il bruno dell'humus, e una molle e opaca qualità d'acqua stagnante. "È una materia primordiale, una sorta di 'hyle' presocratica". È la spinta di questa cieca materia per le "crepe" che, forse, porterà finalmente a crollare "le strutture bianche della morte, le menzogne della burocrazia, i compromessi falsi dello stato, le facce morte, quasi gelate dei rappresentanti del potere". Come la pittrice berlinese di "Sigismund" (1976), che apre in sogno la porta di una nuova, insospettata stanza dietro la sua squallida cucina, i personaggi di molti romanzi vedono spalancarsi davanti a loro, nei momenti di massima insofferenza e soffocazione, fughe impensate di spazi "al di là e al di sotto delle parole, nelle fessure fra parola e parola". Per le "crepe" delle ideologie, delle istituzioni, delle personalità, cola e dilaga "una realtà vergine". Dentro e sotto il vorticare delle schegge di esperienza, nei silenzi fra i coaguli delle frasi, nei vuoti che sfalsano i piani del racconto, aspetta immobile il mito. È un mito negativo che riemerge nell'abbandono e nel distacco. Sfugge all'interpretazione. Unifica e appiana i residui spigolosi della coscienza. Nella "Morte di un apicoltore", il mito è biologico. Il romanzo è fatto di appunti, ritagli, ricordi, aforismi, fantasticherie brevi e lunghe. Tre quaderni diversi che il protagonista ha abbandonato dietro di sé si intersecano apparentemente a caso. Da questa mossa e lacunosa dialettica interna emerge una storia. Narrata per rarefazioni e per condensazioni, come seguendo il filo irregolare del pensiero. Il discorso procede per spazi bianchi, buchi, salti. Ma anche per immagini sovraesposte, per cristallizzazioni di temi nascosti. Un ex maestro quarantenne, che vive da solo in campagna mantenendosi con le api che alleva, si trova a sopportare da solo, per un inverno e una primavera, l'esplosione di un grave cancro alla milza. La passività che è stata la sua regola di vita si rovescia in patimento, poi in passione. Mentre si dissipano l'una dopo l'altra le tracce pubbliche della persona (la politica, la professione, gli amori) cresce, dal basso, una cieca e nuova identità carnale. L'io, il "punto vuoto della lingua", il vuoto centro dell'esperienza, si radica in un corpo dolorante, che a giorni è un "animale domestico", e a giorni una bestia feroce. Trova una buia, pesante pienezza nella negazione e nella resistenza. Si espande in una rete di relazioni elementari: con la campagna che si risveglia dal disgelo, con gli insetti, con l'assonnata medusa che è Dio. Se l'opera giovanile di Gustafsson si era scelta per motto il rovescio della formula di Berkeley ("Esistere è non essere percepiti. Da me"), l'opera matura preferisce capovolgere il polo stesso del razionalismo europeo, il "cogito" di Cartesio: "soffro, dunque sono".
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