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Un libro che consiglio caldamente a chi vuole leggere dell'Afghanistan evitando stereotipi e retorica, dove vicende militari e politiche si intrecciano con quelle personali di tanti anonimi afghani e di Cairo stesso, da oltre vent'anni a Kabul. Afghani che subiscono la guerra, altri che la fanno con profitto, mogli alla ricerca di mariti scomparsi, benestanti decaduti, nuovi ricchi, studenti che nessuno vuole, donne affascinanti e misteriose, disabili che ritrovano dignità tra pregiudizi e bombe che cadono. E intanto la Storia scorre. L'osservatorio di Cairo è il centro di riabilitazione della Croce Rossa Internazionale in cui lavora, punto di incontro di migliaia di persone, attraverso ben cinque diversi regimi. Le storie della gente e del paese sono raccontate con tratto leggero ma mai superficiale, tra lacrime e riso, tutte appassionanti. Di sè Cairo ci dice giusto l'essenziale. Troppo poco? Forse. Tuttavia la sua presenza si sente per tutto il libro, discreta, attenta a non invadere il campo ai veri attori, gli afghani, ma allo stesso tempo viva e forte. Giunti all'ultima pagina uno si spiace che il libro sia finito, di non poter sapere il domani dei tanti personaggi cui si è affezionato. Non gli resta che attendere un nuovo libro di Cairo. L'autore sembra infatti intenzionato a restare in Afghanistan per molti anni ancora. Io l'aspetto.
Da un paio di giorni cerco le parole per commentare questo libro che ho comprato quasi un mese fa, incuriosita da una recensione. L' ho letto lentamente. Per il tema, non per lo stile. Non è stato facile entrare in contatto con tanta sofferenza e con una realtà così lontana dalla mia. Ora, però, mi sorprendo a pensare a Jawad, a Mariam e ai personaggi (veri!) che costellano questo racconto di vent'anni spesi al servizio degli altri. E il centro ortopedico, che fine ha fatto? Com'è finita? Sono rimasta con il desiderio di sapere. Ripeto : il libro di Cairo si legge con qualche difficoltà (all'inizio) ma non si dimentica.
Recensioni
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Per chi ha raccontato l'Afghanistan in questa sua lunga guerra senza fine che è cominciata con l'invasione dell'Armata rossa nel dicembre del '79, è proseguita poi con la lotta scarnificata tra mujahiddyin nella prima metà degli anni novanta, poi ancora con la presa del potere dei Taliban nella seconda metà degli anni novanta, e infine con l'attacco angloamericano di Bush nell'ottobre del 2001, e che continua tuttora con la coalizione internazionale dell'Isaf sotto bandiera Nato (ma sempre accanto all'Enduring Freedom degli Stati Uniti), Alberto Cairo è una di quelle presenze che fanno davvero la storia dell'Afghanistan d'oggi. Fisioterapista della Croce rossa, non è soltanto uno che fa il suo lavoro, ma, con il suo impegno, con la sua dedizione, con il suo silenzio riservato e appartato, con la continuità della sua presenza anche nei tempi più aspri e pericolosi, è diventato una sorta di referente illuminato e prezioso per una delle tragedie più amare che una guerra si porta dietro: gli sciancati, i mutilati, gli squartati dalle esplosioni.
L'Afghanistan, pur con l'impegno di vari organismi internazionali, resta una terra infestata da mine antiuomo disseminate in ogni dove, come nessun'altro territorio di guerra, d'Asia o Africa che sia: ancora oggi, ogni anno sono circa 10.000 le vittime delle mine, calpestate incidentalmente dai contadini che lavorano i campi o fatte esplodere in modo inconsapevole dai bimbi che giocano tra le vecchie rovine del conflitto. E questo disgraziato esercito di vittime incolpevoli sa bene perché Cairo è noto e amato in ogni angolo dell'Afghanistan che a Kabul c'è un "dottore italiano" che può dare ancora una speranza di vita vivibile a quei corpi senza gambe, a quelle braccia senza mani.
Alberto non soltanto aiuta questi disgraziati a recuperare un uso di gambe e di braccia perdute dentro l'esplosione, ma ha attrezzato il suo lavoro di fisioterapista con un laboratorio dove le protesi vengono realizzate dal lavoro attento e intenso degli stessi uomini e donne che di protesi si sono dovuti rivestire. E bisogna andarci, per cogliere lo spirito, verrebbe da dire, "missionario" con cui questo ex avvocato di Cuneo cura non solo le ferite di migliaia e migliaia di vittime che a Kabul arrivano in un viaggio della speranza, ma soprattutto a ciascuna di loro in un paese disperato, dove la vita è difficile e aspra anche per chi gambe e mani e braccia le ha integre restituisce la capacità di accettare le ferite subite e di reagire alla sfortuna.
In più, Cairo con la Cri di Ginevra ha attivato un flusso di microcrediti (100 dollari, che a Kabul sono una somma importante) con il quale aiuta le vittime delle mine ad avviare una qualsiasi piccola impresa lavorativa, un laboratorio d'artigiano, un banco al mercato, un negozietto di quartiere; "e la restituzione del prestito supera l'80 per cento dei casi".
Tutto questo va raccontato da chi ben lo sa, per dare la giusta dimensione di lettura del suo libro, che è un racconto piano, e lieve, proprio com'è Alberto nella sua vita quotidiana in quella terra che è ormai diventata la sua patria d'adozione. La narrazione dei vent'anni investiti a riportare al mondo uomini, donne e bambini lacerati dentro dalla brutalità insensibile della guerra procede come una sorta di diario quotidiano, fatto di notazioni rapide, quasi sottovoce, la scoperta progressiva di un mondo reale dietro le prime categorie approssimative dello straniero, e ne viene un ritratto di storie vere, di partecipazione sempre più intensa, di introiezione quasi d'una nuova identità che accompagna in una faticosa costruzione di speranze possibili il fluire lento o drammatico di giornate mai uguali, di pericoli scampati quasi per caso, di lotte difficile per guadagnarsi la fiducia, la confidenza, la volontaria assunzione di una responsabilità spesso prima ignorata.
Alberto Cairo è ormai una sorta di afghano egli stesso, o comunque è una perfetta integrazione della cultura occidentale con il costume, la cultura, i modi di vita di quel popolo della montagna: ci vive in mezzo, e però conserva integra la sua capacità di vedere e leggere le cose con gli strumenti di chi non ne è coinvolto e, dunque, conserva stabilmente l'uso d'un esercizio penetrante di analisi cognitiva. Affiancare a lui, e al suo racconto, la lettura del Diario da Kabul di Emanuele Giordana (cfr. la recensione in questa pagina) può essere un profittevole lavoro di comprensione della complessa realtà che la guerra ha imposto a Kabul e alla sua gente. Giordana, giornalista e fondatore di Lettera 22, raccoglie infatti in questo suo volume gli spunti di un suo blog creato per fissare il senso d'una sua permanenza di alcuni mesi in Afghanistan. Il racconto si esprime con quello stile scarno e diretto che fa la lingua della blogosfera; ma è comunque interessante per lo spaccato di realtà che sa dare della vita quotidiana del popolo di stranieri operatori internazionali, giornalisti, diplomatici, contractors, speculatori, trafficanti che si è insediato a Kabul seguendo le rotte degli eserciti e ci vive ora rifugiato dentro una sorta di ghetto di lusso, con riti, consumi, scambi che passano indifferenti e disinteressati accanto alla vita reale che Cairo racconta nel suo tracciato di esperienze senza uniformi e senza bandiere.
M. Candito
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