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Romanzo imperdibile, dove immergersi totalmente, in compagnia di un gruppetto di bambini che sanno essere tenerissimi e terribili allo stesso tempo, bambini veri. Attraverso i loro occhi si rivivono gli anni del dopoguerra, di miseria e conflitti sociali, in una periferia romana addormentata nella campagna, seguendoli durante i cinque anni della scuola elementare. Bella la figura del maestro. Indimenticabile l'episodio dell'"attacco" al villaggio Giuliano.
stupendo ritratto della roma del dopoguerra.colpisce la capacità di rendere l'immaginario reale e la forza descrittiva del romanzo che porta a rivivere come se fossimo partecipi le esperienze, le azioni e i sentimenti di Rana, Sorcio, Achille e Polmone. un romanzo che si legge facilmente e invoglia fino infondo a scoprire come terminerà.
grandioso affresco di vita proletaria ma discontinuo, diseguale ed enfatico , in particolar modo nell'evoluzione dell'intreccio "horror" .Assolutamente raccomandabile in ogni caso per la spontaneità e la forza evocativa nel raffigurare la quotidianità della periferia romana .
Recensioni
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In una geografia dei luoghi letterari alla Dossena la campagna laziale, a mezzo tra povertà rurale e miseria suburbana, merita un posto di prestigio, non meno delle Langhe, della Riviera ligure o della provincia siciliana. Quanti romanzi, autobiografici o no, raccontano storie che vi sono ambientate, gravitanti ora verso Roma (come in Pasolini) ora verso i dintorni (come in Ammaniti). Anche Nel regno di Acilia dell'attore Marco Baliani si svolge nella terra di nessuno tra paludi semibonificate e città che inquina ovunque arrivi. Racconta la storia di alcuni bambini (le loro elementari) e delle loro famiglie, le loro favole e le loro crudezze, la loro generosità e la loro sofferenza.
Se il luogo è dunque comune, non mancano neppure i luoghi comuni narrativi: povertà e abiezione riscattate da intelligenza e fantasia, la inespugnabile bontà dei piccoli (anche del Sorcio che si prostituisce come fanno tutti nella sua famiglia) davanti alla malvagità (il Pescecane ex collaborazionista e ora magnaccia) o all'ambiguità dei grandi (il maestro comunista e violento), la loro genuinità a fronte all'ipocrisia dei poteri (il prete), la loro violenza istintiva e calda opposta a quella fredda e calcolata dello stato (la polizia). E ancora: i lavoratori forti di coscienza sindacale e i crumiri più poveri di loro, i residui dell'economia pastorale e i rifiuti di quella urbana, la seduzione e la perdizione della donna.
Quante vicende, situazioni già lette in questo libro! Perfino il dialetto, il similromanesco dei bambini e dei loro familiari, lo abbiamo già incontrato tante volte, col suo libero universo fonico e il suo colorito orizzonte lessicale (i soprannomi a farla da padroni), la gabbia sociale in cui chiude e gli spiragli di immaginazione che apre, la conoscenza che impedisce e quella che favorisce. Già letto è anche il motivo conduttore del fiabesco "Regno di sotto", che vendica e redime tradimenti e ingiustizie di quello di sopra: lo annuncia qui il vecchio e misterioso Catrame, che parla col linguaggio di Verdi e incarica i bambini di una vendetta storica (sui nazifascisti riciclati e impuniti) che dovrebbe sancire la vittoria della fantasia sulla realtà, fare entrare l'età pulita dell'immaginazione in quella torbida della storia. Dal Sentiero dei nidi di ragno in giù quante volte i bambini hanno fornito ai narratori l'angolo giusto per misurare l'enormità delle vicende storiche recenti! Insomma: Baliani usa in quantità elementi, congegni, temi di molta narrativa italiana dal dopoguerra a oggi.
Ma lo fa non solo con genuinità e passione, ma anche con effetti stilistici e letterari di prim'ordine. La storia che racconta è, cronologicamente, situata negli anni cinquanta: ne fanno non per nulla parte eventi straordinari di allora: l'Ungheria invasa, la vittoria di De Gasperi, il delitto Montesi. Ma tutti quei tratti consolidati nel romanzo di formazione o di memoria, cui il Regno di Acilia vistosamente (troppo, a mio giudizio) si ispira, invece di avvicinare la postazione del narratore alla realtà raccontata (tempi e luoghi), invece di servire da coloranti realistici (dialetto, ambienti abitativi, campagne malsane e città fetida), da fattori storicizzanti (l'Unione sovietica dopo Stalin, la Democrazia cristiana, l'elettrificazione) che portino il lettore a riconoscere minutamente l'epoca e la terra in cui si svolge la vicenda, fungono da vettori di slontanamento, favoriscono un approccio elegiaco e lirico al tempo evocato, addolciscono il realismo tutto letterario (e datato) e potenziano il tono affettuoso e commosso della voce narrante, che si piega a guardare l'infanzia di sé e della nostra collettività e sembra rimpiangere che siano cresciuti tutti, diventando forse un po' meno poveri ma più meschini, più tecnologici ma meno liberi, più istruiti ma meno consapevoli. Il dialetto, più di tutti gli ingredienti, serve a questo scopo (non so quanto programmato) e slontana e liricizza più di quanto accosti e simuli il mondo umano protagonista del libro. Ma anche la descrizione dei luoghi finisce per fare la stessa parte e il realismo buio della miseria slitta verso la sontuosità luminosa del sogno e della favola, abbandonando presto interni dallo squallore stile anni cinquanta per esterni gremiti di rumori, suoni della terra, creature immonde e seducenti, acque putride che custodiscono tesori, notti che trasformano in miraggi di luci e concerti cosmici la campagna di giorno fangosa e sofferente.
La scrittura di Baliani libera in questi momenti intelligenze, affetti e suggestioni che sono il tratto migliore del libro e ne riscattano i grevi rimorsi veteroideologici e i troppo vistosi residui di tante pur meritorie letture.
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