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Quando nelle Provinciali scriveva ai "reverendi Padri gesuiti" per difendersi dall'accusa di non "aver parlato abbastanza seriamente" delle "cose sante", Pascal non poteva sapere quello che sarebbe accaduto qualche secolo dopo, al di fuori della pura disputa teologica, in tante pagine di poeti e narratori. In effetti, il Novecento letterario si è spinto ben più lontano: con leggerezza assoluta ha chiamato in causa Dio stesso, prima tra le "cose sante" e vertice assoluto della serietà, lo ha reso quasi umano come ogni personaggio, fallibile e incerto come qualsiasi creatura. In quante pagine più o meno note Dio si presenta, parla, agisce: in un suo racconto Caproni ne fa un signore "quasi quarantenne e vestito di nero" che è salito su un tram senza biglietto; e Palazzeschi, nel Controdolore, un "omettino" mai serio, di media "statura" e "media età", con una "faccettina rotonda" che "divinamente ride".
In questa sua raccolta di "racconti blasfemi" (il cui grado di "blasfemia" si riduce comunque di molto partendo dal riconoscimento degli svariati precedenti novecenteschi) anche Federigo De Benedetti inscena il suo istruttivo incontro con Dio (un "vecchio piegato in due dalla tosse e dalla tramontana") durante un animato party torinese (Domodossola Imola Otranto). E nel complesso scrive un suo frammentario vangelo apocrifo a partire da una piccola furia iconoclasta. Quanto accade nel racconto Il crocifisso vale di fatto per tutto il libro: anche di fronte alla crocifissione, come di fronte a tutti gli episodi biblici ripresi nei racconti e prima fissati in "migliaia e migliaia di quadri" finiti nei musei di tutto il mondo, De Benedetti ci invita a non essere ingenui, a non fidarci del tutto della verità e della bellezza rappresentata ("Siamo abituati ad associare al bello l'intelligente e il buono" dice Dio in persona), a osservare piuttosto i dettagli e le esistenze in ombra, gli inciampi, i vuoti d'umanità, quella piccola parte di dubbio o di male nascosta dal trionfo della fede.
Così, come in un altro vangelo dell'infanzia, Gesù è innanzitutto un "bambino" che "impara a camminare" e Giuseppe un padre pieno di rimorsi che di nascosto si riprenderà il corpo del suo "ragazzo" dal sepolcro, mutando la resurrezione in una sottrazione di cadavere. Ancora: il povero Lazzaro preferirebbe "abbandonare la vita al più presto" e "riposare in pace, una buona volta", e Abramo si sente "ingannato" dal suo patto con Dio, "invischiato in un'associazione a delinquere". Gli animali stessi, al cui punto di vista De Benedetti assegna nel libro uno spazio a parte, tendono in qualche modo a una loro eresia: il vecchio ariete considera il sacrificio di suo figlio "mille volte più ingiusto" di quello di Isacco e il dromedario, la più saggia tra le creature, ci assicura che in realtà Dio non ne sa più di lui, né ha le risposte alle "vere grandi domande". Pur scritti da un "ateo convinto", mentre riprendono e rivedono la verità rivelata i "racconti blasfemi" non cedono mai al semplice nulla, all'angoscia dell'indifferenza o dell'assenza divina. Antidogmatico e voltairiano dichiarato, riscrivendo il suo vangelo De Benedetti allontana semplicemente ogni residuo veterotestamentario, persuaso che il male del mondo derivi più da una mancanza dell'umano che da un'assenza del divino. Così il Deus absconditus, terribile e insondabile nel suo volere, esita "come talvolta fanno i genitori" di fronte a un figlio che fallisce; e nello stesso tempo la sua (in)esistenza può diventare oggetto della nostra umanità: "È simile a noi, e perciò ha diritto alla nostra compassione". Daniele Santero
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