Un passo avanti o uno indietro sulla salita dell'autofinzione? A prima vista, Il nome giusto radicalizza l'arte del dire di sé fittizio, occupando una casella impossibile sullo scacchiere narrativo. La voce narrante ha tutto per identificarsi con quanto il risvolto del libro ci dice dell'autore: quarantasettenne lombardo trasferito a Roma, che ha scritto su "uno scalcinato quotidiano di partito" e "per la versione on line di una rivista" ed è alle prese con la difficile stesura del primo romanzo; eppure, immediatamente, l'associazione è resa impraticabile. L'immagine di partenza rivela infatti l'idea di fondo che struttura il romanzo: il punto di vista appartiene a un cadavere steso sull'asfalto la romana circonvallazione Trionfale è il suo "viale del tramonto" e il legame con il mondo dei vivi è mantenuto tramite i suoi libri, finiti in blocco in un negozietto dell'usato, che quando entrano nelle vite di chi li acquista permettono allo sguardo fantasmatico di seguirli. Ed è ascoltando i pensieri che spiano per poco queste esistenze che il lettore inizia a conoscere il passato, la vita del morto, perché più che le vicende degli altri contano le associazioni che fanno sprigionare frammenti di ricordo che oltrepassano la morte. Forse più che di una radicalizzazione della finzione di sé si tratta allora di un tentativo di aggirare il problema classico dell'autobiografia, l'orizzonte della fine: chi parla di sé non nella forma progressiva del diario ma in un racconto che si vuole completo dovrebbe potere scrivere appunto dopo la morte, quando né una nuova vicenda né una diversa rilettura del passato possono ormai intaccare il senso generale del percorso esistenziale. Viene la tentazione, insomma, di mettere un po' in secondo piano l'animo da flâneur e da collezionista del fantasma autobiografo, che si racconta come venditore di patchworks e "bottegaio della letteratura", che assembla materiali eterogenei nel lavoro e nella scrittura, che affronta continuamente la realtà sotto la forma della raccolta (il cd con il maggior numero di covers della stessa canzone, il progetto di un libro fotografico che censisca tutti i glicini di un quartiere; l'attrazione per libri come l'obituario di quattro secoli di morti monzesi o il catalogo tematico delle Annunciazioni nella storia dell'arte); per rileggere invece la sua vicenda in modo molto più lineare ed evolutivo. D'altra parte, collezionate ed esibite sembrano anche le parole, sia nella direzione gergale e colloquiale ("anfanando", "gnegnera", "vanverava", "schiscio", "sfancularci", "roscia"), sia in quella ricercata o tecnica ("dromomania", "anosmico", "bruxismo", "adorcismo", "kenosi"), ma l'effetto di ricercatezza è fortemente indebolito dalla vicinanza di espressioni sciatte o di aggettivi appiccicati stancamente ("groviglio di lamiere", "stamberga maleodorante", "faceva un freddo becco" o discoteche piene "di belle fighe con tanta voglia di divertirsi"). Non l'infinito delle serie disegna quindi il grafico della sua vita, ma la scansione finalistica dettata dalle relazioni amorose. Le diverse fasi della vita del morto sono legate a una donna diversa: la "mezza pazza" che cambia nome a ogni uomo, decide subito quanto durerà l'amore e fugge regolarmente al momento prestabilito; l'insopportabile, perfezionista buyer di moda (di una totale, incomprensibile incompatibilità con il protagonista) e il finale vero amore maturo. Questo desiderio di permanenza, di durata illimitata (poter rispondere con sicurezza ai "promettimi che non ti stancherai mai di me"), inscindibile dalla paura della responsabilità e dalla consapevolezza dell'impossibilità sembra un tema forte di una generazione Garufi è appunto nato a Milano nel 1963 di narratori italiani. Ecco perché chi dà qui voce a questo desiderio impossibile è un morto: sembra l'unico modo per rendere credibilmente eterno un legame che deve portare al coronamento di un'esistenza, con tanto di paternità, sia pure doppiamente vicaria (al posto di un primo padre, già a sua volta adottivo). E allo stesso tempo per chiudere il cerchio di una predestinazione letteraria che poteva sembrare sempre più un peso: dall'episodio del giovane Sergio che stringe amicizia con il vecchio Borges all'appoggio preventivo di coetanei già da tempo pubblicati come Tiziano Scarpa e Tommaso Pincio. Non stupisce, perciò, che il risultato sia un libro libresco, annunciato come tale con squilli di trombe da tutti i luoghi paratestuali più evidenti: i titoli dei capitoli sono quelli dei libri comprati e rimessi in circolazione, l'epigrafe tratta da Walcott parla di una "memoria che nasce dall'immaginazione e dalla letteratura e non ha nulla a che vedere con l'esperienza effettiva" e, prima ancora, la fotografia di Dino Ignani sulla sopraccoperta investe con forte sottolineatura cromatica proprio un negoziuccio di libri usati, con cassette colme in terra, il venditore appoggiato alla porta e una grande scritta in alto a sinistra (molto più grande del titolo del romanzo): «libri». Davide Dalmas
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