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C’è qualcosa che caratterizza la tortuosa vicenda dell’anarchismo: il suo essere bistrattato, denegato, occultato. La storia dell’anarchismo è la storia di un grande assente: perché non riconosciuto, non rintracciato come tale, oppure perché maliziosamente omesso e ridimensionato, sulla base del pregiudizio della sua irrilevanza. Ma, come spesso accade, il rimosso ricompare via via, sempre di nuovo, lavora sotto traccia; e così, un po’ paradossalmente, l’anarchismo è onnipresente, nella forma delle sue domande, fondamentali e ineluttabili, con una «sorprendente persistenza nel tempo» e la capacità di resistere alle «condizioni “climatiche” più difficili».
Gli interrogativi di fondo dell’anarchismo sono quelli connessi al problema della convivenza sociale sullo sfondo di norme prive di violenza, per recuperare una relazione concettuale individuata nell ’Antropologia di Kant che definì l’anarchia come «Gesetz und Freiheit ohne Gewalt» (legge e libertà senza violenza). Ma, ancora, sono cruciali i quesiti impliciti in quella tensione tra libertà e diritto, che si coniuga con l’ineludibile natura bifronte dell’universo giuridico, come è stato ben colto e cristallizzato nelle pagine di Andrea Caffi. E pure sono decisive le questioni legate alla relazione «non ufficiale» tra anarchia e democrazia: rapporto tormentato, questo, a cominciare dall’ambivalenza della cittadinanza democratica che, per includere ed estendere la partecipazione deliberativa, non può bandire l’incombente vocazione all’esclusione.
Non è all’anarchismo filosofico che si rivolge dunque lo sguardo di Massimo La Torre, bensì all’anarchismo politico. Se l’anarchismo filosofico si limita ad affermare «la mancanza di sostrato normativo forte di pretese che comunque rimangono valide da un punto di vista sociologico o fattuale», l’anarchismo politico, l’anarchismo “classico”, rivendica per sé progettualità; la sua «negazione della giustificazione dell’autorità» si fa costruttiva, proiettiva, lanciata verso un futuro immaginato possibile.
Coerente rispetto alla propria radicalità, attratto dalla profondità e dalla ricerca della verità empirica dei rapporti di potere reali, l’anarchismo difende e legittima il primato della ragione, di una ragione nella quale va riposta fiducia, contro le infinite guise del dominio. Ma «anarchismo» significa immediatamente anche centralità di un sentimento, quello della compassione per il debole che subisce il dominio del più forte. «Il terreno comune del “canone” dell’anarchismo politico» non è tanto o prioritariamente «l’avversione per lo Stato», ma «la pietà per il dominato e l’inferiore, quale che esso sia, come che esso fenomenologicamente possa darsi, con in più il “principio speranza”».
Talvolta si è affiancato l’anarchismo all’anarco-capitalismo, ma La Torre fa ordine e ricolloca tutto al suo posto. Avoca al pensiero anarchico il cuore libertario, e precisa il tratto contingente del punto di sovrapposizione esistente tra anarchismo e anarco-capitalismo: l’avversione all’ordine statale. Sono diversissime le ragioni di tale avversione. All’anarco-capitalista non interessa, anzi egli giustifica, il dominio generato dal fenomeno proprietario e delle sue logiche di profitto; al contrario la ragione del reciso antistatalismo dell’anarchico risiede nel fatto che «è penoso che un essere umano comandi su un altro suo simile, e ancor più penoso è che questo comando si perpetui, si strutturi e si autolegittimi».
La Torre ripercorre la vicenda dell’anarchismo entro una densa trama interpretativa, scandita dalle figure polari di Godwin, Proudhon, Stirner, e poi Bakunin, Kropotkin, Tolstoj, e ancora gli «amici avversari» Malatesta e Merlino. Attraverso la lettura dei capitoli dedicati a questi «anarchici “veri”» si segue il filo di un discorso che forse al termine deve in modo particolare a Francesco Saverio Merlino l’onere e l’onore della sintesi di un progetto «plausibile», che persiste e risuona persino oggi nell’ideale di società di Habermas (il cui progetto di giustizia può essere meglio inteso non trascurando il suo essenziale e dichiarato nocciolo anarchico).
Merlino «rivela l’“anima” del libro e le sue intenzioni», la sua idea di anarchia possibile si staglia preziosa sullo sfondo. È infatti proprio lui – spiega La Torre – che «ritessendo il filo della riflessione proudhoniana, distingue tra Stato, o potere di dominio, e dimensione politica, intendendo con quest’ultima designare un dato strutturale (non contingente, dunque) della società: le sue istituzioni». Ed è sempre lui a sottolineare «la dimensione non tecnica, e sempre normativa, e tuttavia non meramente volontaria, o egocentrica, bensì relazionale, dunque pubblica, dell’azione comune tra gli uomini nella loro convivenza». Convivenza questa che costituisce la condizione di possibilità per la pratica di una libertà intesa «come il diritto uguale di ogni essere umano a partecipare delle condizioni che rendono possibile il benessere di tutti e di ciascuno».
Chi ha iniziato a seguire la riflessione “larga” (per dirla ancora con Kant) di Massimo La Torre cominciando dal saggio su Proudhon degli anni Ottanta, non può non aver atteso da tempo questo suo libro tutto dedicato al pensiero anarchico. Un’attesa felicemente ricompensata dal risultato; perché è un libro bello, importante, per chi crede vi possa essere un’idea alta di politica, una politica che si lega intimamente alla libertà ed «è dialettica di conflitto e d’azione in concerto». Ma, in fondo, anche per chi crede in un’idea nobile della filosofia, come pensiero critico rivolto alla complessità e alla rilevanza del reale.
Nostra legge è la libertà è un libro che con sensibilità rara rende giustizia finalmente all’anarchismo; sin dal titolo, e poi in ogni sua pagina. Un libro che ne coglie il valore e il significato autentico, teorico e umano, che permette di avvertirne il portato più profondo in termini di libertà. Un libro insomma contro i mille fraintendimenti, le volute semplificazioni, i tanti silenzi.
Marina Lallatta Costerbosa
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