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Partiamo da un libro di Francesco Biscione, Il sommerso della Repubblica (Bollati Boringhieri, 2003), libro che, dell'agile e utile volumetto di Ferrari, studioso da molti anni impegnato a indagare sul microcosmo neofascista, costituisce l'involontaria premessa. Il legame sta in un duplice nesso dialettico: il primo, di radice subculturale, è quello che si dà nel rapporto tra vecchio che riemerge (Biscione) e nuovo che assume forma (Ferrari). Il vecchio sono i temi di fondo dell'Italia repubblichina, mai venuti meno, in quanto essa stessa mai del tutto defunta e come tale coesistita con l'Italia repubblicana, perlomeno in quanto suo abissale rispecchiamento. Il nuovo è quel materiale, non troppo informe, che si chiama neofascismo, di cui Ferrari ci rende resoconto in chiave, per l'appunto, culturale. Il secondo nesso è di natura politica, e si determina nel rapporto, definitosi all'inizio degli anni novanta (ma qualche sguardo lo meriterebbero anche certe sensibilità di Bettino Craxi verso il Movimento sociale che datano al 1983), tra l'evoluzione della destra post-qualcosa, nel suo percorso verso l'area di governo, e la legittimazione di temi altrimenti fino ad allora interdetti. L'esito è lo spostamento del baricentro del sistema politico a destra. Ferrari lavora all'incrocio tra queste quattro polarità: vecchio/nuovo e postfascismo/neofascismo. Ci racconta di un circuito in fermento, alla ricerca di una nuova identità, non per consorziarsi politicamente (è consustanziale al neofascismo la divisione in cellule, sia pure vettori di metastasi), ma per sfruttare al meglio le ampie falle di una democrazia fragile e (in)sofferente. Il neofascismo l'investimento culturale lo sta facendo, ed è nel recupero della tradizione nazista, incorporata in toto o a segmenti, secondo le occorrenze. Leggere per credere (o ricredersi), anche se fa male.
Claudio Vercelli
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