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Con la dissoluzione dell'ordine bipolare i legami tra le due sponde dell'Atlantico si sono allentati e l'identità dell'Occidente, che i cantori dell'universalismo giuridico si apprestavano a celebrare con toni ancora più enfatici (Jürgen Habermas è forse l'intellettuale più rappresentativo di questa stagione), è entrata in crisi. Dei fatti del 1989-91 si proponevano due letture distinte: negli Stati Uniti prevaleva la tesi che la Realpolitik degli armamenti aveva piegato l'"impero del male", in Europa invece la tesi che la "potenza civile" di istituzioni volte a promuovere la cooperazione e i diritti umani aveva creato nelle società civili d'oltrecortina le condizioni per una transizione pacifica alla democrazia, per quella che si chiamò, a proposito della Cecoslovacchia, la "rivoluzione di velluto". Dopo il 2001 la divisione dell'Occidente (a cui un Habermas ormai manifestamente sulla difensiva propone di porre rimedio con un ragionevole, ma improbabile, progetto cosmopolitico) si è decisamente acuita, come molti indicatori stanno ormai a mostrare: fra questi, sul piano culturale, il perturbante dibattito sull'"occidentalismo" come costruzione ideologica antioccidentale (sul modello dell'"orientalismo" di Edward Said).
Uno dei motivi d'interesse del volume di Buruma e Margalit, di cui si discorre qui a fianco, consiste nel mostrare come "la guerra all'Occidente" sia prima di tutto un momento interno della coscienza divisa dell'Europa e come la classica contrapposizione tra Kultur mitteleuropea e Zivilisation occidentale costituisca uno dei topoi di quella guerra ideologica, che, dopo la seconda guerra mondiale, neutralizzata ogni residua politicità della Kultur tedesca, si è risolta nell'identificazione di Occidente e americanismo. È stata la cultura europea a generare con la radicalizzazione delle sue ideologie totalizzanti – socialismo, nazionalismo, fascismo – gli ingredienti di quei costrutti ideologici che hanno portato i perdenti a reagire all'imperialismo economico e all'aggressione culturale dell'Occidente con visioni stereotipe e paranoiche della "nuova Babilonia", che hanno naturalmente avuto facile presa fra le masse degli emarginati. Il libro è pertanto, nelle intenzioni degli autori, non un "racconto manicheo di scontro di civiltà", ma un "racconto di contaminazioni incrociate, di diffusione di idee sbagliate".
Il saggio di Preterossi è, invece, oltre che un'intensa sintesi sull'idea filosofica di Occidente, un atto di accusa circa quelle sue pratiche politiche che contraddicono platealmente l'immagine normativa di sé che esso intende esportare; annoda in una diagnosi complessiva tesi che da qualche tempo circolano nella (da noi nutrita) famiglia dei post-, neo- e anti-schmittiani di sinistra (spesso le tre attribuzioni coincidono): lo stato d'eccezione globale di Giorgio Agamben, la polizia globale di Alessandro Dal Lago, la guerra universalistica senza fondamento di Carlo Galli. La tesi di fondo è che con la guerra in Iraq si è avviato, in nome dell'Occidente, "un meccanismo di grave delegittimazione dei suoi princìpi e soprattutto dell'idea moderna di diritto". Per descrivere le strategie e la situazione internazionale che gli Stati Uniti hanno generato con le loro scelte recenti Preterossi non lesina il ricorso a formule estreme: "stato d'emergenza della civiltà", "giacobinismo reazionario globale", "politica di onnipotenza", "logica totalitaria". Ricostruendo il dibattito che gli avvenimenti traumatici degli ultimi anni hanno suscitato, giunge alla rappresentazione di un Occidente diviso tra un cosmopolitismo ipernormativistico incapace di effettualità e un cattivo "realismo irrealista", che manifesta la sua forza dirompente nell'alimentare una nuova "rivoluzione conservatrice" che presume di sfociare, con un messianismo speculare al fondamentalismo che combatte, nella God Governance. Ma dopo aver smontato i "luoghi comuni pseudorealisti" dei neoconservatori, e i metaracconti che contrappongono una forte America hobbesiana (e tucididea) a una debole Europa kantiana, la sua critica sembra appuntarsi (con un accanimento che appunto non dissimula matrici hegeliano-schmittiane) contro quelle posizioni moderate e ragionevoli (la versione soft di un realismo della ragionevolezza, che è al tempo stesso una variante debole di universalismo da "normativisti ingenui") di intellettuali come Rawls, Walzer, Ignatieff, cui in definitiva è rimproverata ben più che fragilità culturale e ingenuità politica, ma un "nuovo, semplicistico, ammantato di buone maniere, talvolta forse cinico, 'tradimento dei chierici'".
Resta naturalmente la domanda sul "che fare?", sulla ridefinizione della strategia politica dell'Occidente, che in ogni caso continua a essere chiamato a governare, per la parte più onerosa, il nuovo conflitto delle civiltà. Il limite infatti di queste diagnosi resta la genericità e la convenzionalità delle controproposte. Il volume di Buruma e Margalit si chiude con una pagina in cui gli autori si limitano a suggerire che cosa non si debba pensare e quali siano le trappole da evitare: l'arrendersi alla "paralisi dovuta al senso di colpa coloniale", il cedere alla convinzione che l'Occidente sia in guerra con l'islam e che la religione organizzata sia il nodo della questione. Il saggio di Preterossi, per parte sua, tradisce una certa dissonanza tra la radicalità della critica, che presuppone un'"analisi spietata e rigorosa", e fa appello a una svolta radicale ("un radicale mutamento di paradigma politico-culturale e di leadership"), e il realismo che cerca di coniugare un "diritto umanitario minimo", un pacifismo che punta sulle istituzioni e una politica che pazientemente lavora alla mediazione (niente di più che la riproposizione dell'ideologia dell'Europa come "potenza non militare ma civile"). Anche i chierici europei, a quanto pare, sono divisi come quelli americani in tante famiglie; anche qui coloro che si appellano a una versione moderata di realismo coniugata con un nucleo di normativismo minimo hanno problemi di coerenza; per cui appare fondato il sospetto che a dissimulare la loro incoerenza sia semplicemente il fatto che l'Europa resta un pulpito della critica riluttante a decidere propositivamente e ad assumere responsabilità politiche.
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