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La lettura è scorrevole, l'argomento è estremamente interessante per tutto coloro che si interessano di creatività. La prospettiva di una creatività culturale è molto ben esposta, anche grazie ad alcuni racconti dell'esperienza personale dell'autore. I riferimenti filosofici sono precisi, ma non pesanti. Assolutamente consigliato!
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Descritte da Victor Segalen come uno degli ultimi paradisi irrimediabilmente perduti, le isole dell'Oceania sono ancora oggi cariche di un immaginario esotico a tinte forti che oscilla tra il sogno delle incantevoli e disponibili "veneri tahitiane", decantate da Paul Gauguin e da tanti altri vagabondi dei mari del Sud, e il fascino inquietante dei cannibali e dei tagliatori di teste della Papua Nuova Guinea. Immaginate come disperse "in un mare lontano" e impermeabili a ogni contatto e contaminazione, hanno al contempo rappresentato uno dei luoghi classici della ricerca sul campo per gli antropologi intenti a trovare culture autentiche e immobili nel tempo e prove empiriche dell'esistenza di mitiche terre del "dono". All'esotismo etnografico dei primi decenni del Novecento è seguita la triste ma inesorabile consapevolezza della scomparsa irreversibile di quei mondi "primitivi" e più in generale delle differenze culturali, cancellate violentemente e altrettanto rapidamente dal potere e dall'egemonia occidentali. Le celebri pagine di Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici danno conto di una visione largamente condivisa tra gli studiosi, i quali colgono unicamente gli aspetti della destrutturazione delle società tradizionali dipingendo i polinesiani e i tanti altri isolani del Pacifico come inerti, passivi e capaci solo di annullarsi nei modelli imposti con la forza dall'esterno.
Prendendo le distanze dalle teorie focalizzate esclusivamente sugli aspetti negativi del contatto e della successiva dominazione coloniale, il libro Oceania. Isole di creatività culturale di Adriano Favole ci offre uno scenario completamente diverso, caratterizzato da un "mare di isole" tra loro interconnesse (secondo la celebre espressione dell'antropologo nativo Epeli Hau'ofa) e non più segnate solo dalla perdita, ma da un "vero e proprio sforzo creativo" e da "un intenso fervore artistico, politico e culturale". Improvvisamente l'Oceania, dopo un lungo periodo di crisi caratterizzato da chiusure e separazioni, riemerge, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, come il continente della creatività culturale popolato da società vive e in piena rinascita. Pur consapevole dei guasti della colonizzazione e della situazione postcoloniale, Favole ritiene che l'immersione etnografica nei contesti oceaniani contemporanei porti inevitabilmente a superare la visione dei vinti, le teorie dell'impatto fatale e dello scoraggiamento, per aprirsi a un'antropologia della creatività culturale fondata sul primato della relazione e non sulla ricerca ossessiva di identità e di sostanze originarie. Una nuova prospettiva epistemologica orientata a cogliere i nessi e le fusioni tipiche di alcune società del Pacifico contemporaneo e a reimmaginare i polinesiani e i melanesiani non più come oggetti di una storia scritta da altri, ma come soggetti storici che elaborano il nuovo interagendo costantemente con il mondo esterno.
I rapporti tra gli oceaniani e gli occidentali appaiono allora segnati certamente da violenza, soprusi, dominio e drammatici "impatti", ma anche da improvvise congiunzioni. A differenza di quanto hanno sostenuto i teorici della globalizzazione, le società figiane, samoane o kanak non "collassano" davanti all'irrompere delle tecnologie, della democrazia, delle merci e delle idee degli occidentali, ma si rivelano particolarmente abili nell'innestare questi elementi esogeni nelle proprie culture, attraverso un processo costante di addomesticamento e di risemantizzazione. L'esperienza etnografica decennale in Nuova Caledonia e nell'isola di Futuna consente a Favole di criticare gli approcci dicotomici che essenzializzano la contrapposizione tra "noi" e gli "altri", per mostrare al contrario le infinite "sintesi creative", frutto della relazione fra la modernità e la tradizione, fra il mercato e le economie del dono, fra il suffragio universale e il potere dei Big men. Queste particolari interazioni rivelano, da una parte, la coesistenza di sistemi differenti, che non si cancellano l'uno nell'altro, ma si "connettono contrapponendosi"; dall'altra, mostrando il carattere plastico e creativo delle tradizioni, mettono in evidenza come la creatività culturale non sia un ibrido indotto dalle forze egemoniche della globalizzazione, ma poggi su continuità storiche e configurazioni culturali preesistenti inclini all'incorporazione e alla trasformazione di elementi stranieri.
Ampliando lo sguardo etnografico a dimensioni più universali, Favole sostiene che la creatività culturale non è tanto il frutto dei mutamenti interni né è espressione del genio dell'artista isolato, ma prende forma "nelle piazze dove l'umanità si incontra e scontra". Alla luce di queste considerazioni è possibile far proprie le critiche postmoderne e postcoloniali agli approcci essenzialistici ed esotizzanti del discorso antropologico senza però rinunciare alla differenza culturale e al concetto stesso di cultura. Quest'ultima, intesa come "capacità inventiva ininterrotta e non compiuta a partire dai concetti condivisi e convenzionali", non è infatti secondo Favole all'origine dell'esotismo; è invece la nozione di identità che, reificando e irrigidendo le culture, fonda l'esotismo. Fra il conservatorismo dei teorici dell'identità e il decostruzionismo dei critici del concetto di cultura, si distingue allora uno spazio concettuale autonomo, frutto di un nuovo connubio tra l'epistemologia e la ricerca etnografica, in grado di dar conto dell'inesauribile creatività umana interpretando la cultura come spazio della condivisione e della relazione.
L'argomentazione di Favole finisce per approdare a un punto di interesse ancora più generale: e cioè la possibilità di differenziare le culture in base al potenziale di creatività, o, al contrario, di impoverimento che possono esprimere. Qui l'autore (seguendo una linea già tracciata dai più recenti lavori di Francesco Remotti) cerca di superare l'impostazione relativista della più classica antropologia, che "accetta" l'esistenza delle culture e delle differenze senza sottoporle a valutazione: esistono invece culture più o meno ricche e creative, e culture che per diverse contingenze storiche si impoveriscono. Da cosa dipendono i diversi gradi di creatività e impoverimento? Per Favole la risposta è chiara: l'impoverimento è prodotto dalle dinamiche di chiusura e dall'"ossessione" identitaria, la creatività dall'apertura, dall'incontro e dalla capacità di inglobare gli apporti esterni. Il tema è di grande interesse per il dibattito antropologico contemporaneo e offre delle importanti sollecitazioni per ripensare in modo innovativo al problema della risoluzione pacifica o violenta dei conflitti e delle crisi. In ogni caso, si tratta di una prospettiva che riapre necessariamente all'antropologia una dimensione generalizzante, che con il successo delle prospettive interpretative negli ultimi decenni del Novecento sembrava definitivamente tramontata.
Matteo Aria
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