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recensione di Monaci Castagno, A., L'Indice 1998, n. 9
"Se Origene ha superato tutti nell'interpretare gli altri libri della Scrittura, sul "Cantico dei Cantici" egli ha superato se stesso". Così si esprime Gerolamo, cui dobbiamo la traduzione latina delle due omelie pronunciate da Origene a Cesarea di Palestina intorno al 245 che ci vengono ora offerte nell'edizione critica di uno dei massimi studiosi dell'opera origeniana. Si tratta di un'edizione radicalmente innovatrice, in quanto individua all'interno delle classi di manoscritti già selezionati dall'editore precedente (W.A.Baehrens, Berlino 1925), ma per lui tutte derivanti da un unico archetipo, un testimone più antico rispetto agli altri manoscritti e indipendente da questi, che viene dunque ritenuto il rappresentante più autorevole di tutta la tradizione manoscritta. La traduzione è corredata da un ricco commento in cui l'esegesi origeniana viene chiarita sia ricorrendo ai passi paralleli del "Commento", sia collocandola nel contesto più ampio dell'opera origeniana e dell'interpretazione del "Cantico" in ambito patristico e giudaico.
Come Rabbi Aqiba sosteneva, agli inizi del II secolo, che tutto il corso del tempo non è degno del giorno in cui questo libro fu dato a Israele, così anche Origene riservava a questo canto d'amore un posto di assoluto rilievo; esso eccelle non soltanto fra i libri scritti - secondo l'opinione degli antichi - da Salomone, ma anche all'interno dell'intera Scrittura.A cos'altro infatti - osserva Origene - potrebbe alludere il titolo stesso - "Cantico dei Cantici" - se non al canto preparato dagli altri canti presenti nell'Antico Testamento, il canto ultimo e sublime che sgorga dall'anima che è arrivata sulla soglia della camera nuziale, al termine del suo itinerario verso Dio?
A fronte di una tradizione giudaica che riservava la lettura di questo libro soltanto a persone adulte, Origene ne offre la spiegazione davanti all'assemblea liturgica, presenti anche i principianti nella fede; il predicatore è ben consapevole del pericolo che può nascere dal contatto con un libro che è un tripudio gioioso di sensazioni legate a quanto esiste al mondo di gustoso: il vino, la dolcezza dei frutti; di odoroso: l'aroma dei fiori, il profumo del corpo dell'amato; di bello: il corpo e l'armoniosa agilità dei due amanti; di musicale: la voce della tortora, i canti nuziali, la voce dello sposo. Da qui l'insistenza con cui Origene ricorda al suo pubblico che i sensi eccitati dal "Cantico" non sono quelli carnali, ma, in realtà, quelli spirituali, e l'amore di cui si tratta è "amor spiritualis "dell'anima verso il Logos o, secondo l'altro registro interpretativo, della Chiesa verso Cristo.
Il testo biblico, assai difficile anche da un punto di vista filologico e letterale, viene trasformato dall'interpretazione origeniana in azione drammatica fra quattro personaggi: la sposa, il coro delle fanciulle che l'assistono, lo sposo, il coro dei giovani. I versetti del "Cantico" diventano altrettante battute attribuite alle une e agli altri e disegnano il dramma d'amore ove la gioia per la presenza e il possesso dell'amato si alterna al disorientamento e alla tristezza per la sua assenza; vuoto improvviso e misterioso di fronte al quale la sapienza esegetica di Origene confessa la propria impotenza: "Lo sposo dopo essersi fatto vedere si è allontanato. Più volte fa così lungo lo svolgimento del canto e nessuno può capire questo modo di comportarsi se non l'abbia egli stesso sperimentato. Tante volte - Dio mi è testimone - ho visto lo sposo avvicinarsi a me ed egli si intratteneva con me a lungo; ma poi improvvisamente si allontanava e io non potevo trovare ciò che cercavo. Desidero perciò che egli venga di nuovo, e talvolta egli viene ancora, dopo che è apparso e si è fatto prendere dalle mie mani, di nuovo sfugge, e quando mi è sfuggito, io di nuovo lo cerco, e fa così di frequente, finché io possa tenerlo veramente e salire 'appoggiandomi al mio amato'".
Nell'ascesa dell'anima verso Dio, la rinuncia della carne e del mondo va di pari passo con lo studio della Scrittura, analizzata secondo la strumentazione filologica e filosofica del tempo; la "venuta" dello sposo, che illumina l'anima e le fa vedere e comprendere ciò che prima le rimaneva oscuro, non sostituisce la ricerca intellettuale, ma ne costituisce il premio, per quanto talora incerto, e sempre grazioso; e se proprio nell'esegesi del "Cantico" Origene enuncia temi che saranno cari alla tradizione mistica successiva - i sensi spirituali, la ferita d'amore, le nozze spirituali - essi sono iscritti in un orizzonte che è ancora quello della filosofia e della spiritualità ellenistiche. È Origene stesso che tiene a collocare il "Cantico" anche sullo sfondo di questa tradizione cogliendone il tratto comune, là dove osserva che anche i greci, con dottrine esposte in forma di dialogo, "hanno cercato di dimostrare che la forza dell'amore non è altro se non quella che conduce l'anima dalla terra agli eccelsi fastigi del cielo e che non si può arrivare alla somma beatitudine se non per la spinta del desiderio di amore" (come dice Simonetti nella prefazione al testo). E forse anche la riscrittura origeniana del "Cantico" in forma di dialogo può essere intesa come un segno voluto di tale continuità.
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