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Limitatamente a: IL PADRONE. Il primo scontro con la realtà, il protagonista, giovane di venti anni, lo ha subito in principio, senza che se ne renda propriamente conto, allorché giunto al numero 21 della casa dove deve prendere lavoro – il suo primo impiego – non vede ciò che si era immaginato di vedere: un bel palazzo; e quando entra nell’androne, nemmeno lì vede ciò che s’immaginava con la fantasia: un bel giardino con alberi e uccelli di là da una opaca vetrata. Lo stesso suo sguardo è contaminato, come il suo pensiero, al punto che deformi e grottesche gli si presentano le prime persone che incontra, lo scimmiesco portiere e l’usciere della ditta commerciale. Si ha subito la sensazione che la realtà abbia una tale forza mimica e dirompente da prendersi gioco di noi a suo piacere, affacciandosi, tra evanescenze e ombre, con sembianze e ossessioni capaci di alterare la nostra personalità, a tal punto da farci sognare come anelate conquiste una società e un modo di vivere che hanno in sé tutti i peggiori germi del disfacimento. L’autore ha una scrittura semplice e piacevole, ma la pignoleria con la quale segue ogni dettaglio sia ambientale che umano (emblematica la descrizione della inieizione all’inizio del capitolo V) produce l’effetto ulteriore di moltiplicare, quasi fosse esposta sotto una lente di ingrandimento, la rappresentazione della realtà. Essa assomiglia ad una pelle che mostri ingranditi tutti i pori che contiene, i quali si aprono e si chiudono come un seducente richiamo. Tale è, ad esempio, la donna che affitta la camera al nostro giovane protagonista. È la stessa attrazione, tuttavia, che può emanare da una materia deforme (troveremo il paragone con il giardino del palazzo “saturo di quell’aria funebre e immota che nasce e si sprigiona sempre dalla vita artificiale”), allucinata e maniacale, in lenta e inarrestabile decomposizione, che emette e scandisce i suoi gemiti come se, al contrario, fossero vagiti di speranza. Non è un caso che spesso i personaggi sono descritti come se fossero, per
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