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Testo sufficientemente inusuale nella pletora di volumi che si accompagnano alle confliggenti e contrapposte narrazioni del conflitto israelo-palestinese, il libro di Mark LeVine si segnala per l'intreccio fra ricostruzione storica e cognizione del presente. In altre parole, racconta e valuta l'evoluzione dei trascorsi alla luce delle domande più urgenti ai nostri giorni, in particolare per quel che concerne il ricorso alla violenza come cuore nero della contrapposizione. L'arco di tempo del suo ragionamento è costituito dagli ultimi vent'anni, scelti non a caso poiché è nel 1989 che il rigido bipolarismo tra Est e Ovest si conclude, mentre avanza la globalizzazione sia come fenomeno economico che come processo socioculturale. Fondamentale è quindi la valutazione del farsi degli accordi di Oslo (1993), così come il loro disfarsi, alla luce della contraddittorietà delle premesse che li ispiravano, sospesi tra la necessità di avviare un percorso e l'incapacità di dotarsi di reali strumenti per farlo. L'impostazione dell'autore è quindi attenta a contemperare la dimensione dello scenario, descrivendo la regionalità mediorientale e l'operato degli attori in campo, a quella strutturale, dove entrano in gioco i fattori esogeni, destinati a condizionare i protagonisti sul lungo periodo. Il tema di fondo, per LeVine, è la cristallizzazione delle identità e la reificazione dei ruoli in altre parole, gli eccessi di storia dai quali deriverebbe un'inquietante propensione all'agire maniacalmente ripetitivo. Un'ultima nota riguarda la difficile questione della traslitterazione dei molti nomi, resa conservando una grafia più aderente a quella originale, il che non sempre facilita i lettori meno competenti nel riconoscere personaggi e luoghi.
Claudio Vercelli
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