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La prima storia poetica della Catalogna è una storia di dipendenza dalla sua grande vicina, l'Occitania dei trovatori.Catalani di nascita e di vita, ma provenzali di lingua e di contenuti, sono stati alcuni importanti poeti dalla fine del XII alla fine del XIII secolo, comunemente annoverati fra i trovatori.Anche per tutto il Trecento prosegue una tradizione tardo-trobadorica, per quanto progressivamente segnata dall'inserimento di catalanismi linguistici e di deviazioni tematiche dal canone provenzale come era stato stabilito dai trovatori e poi perpetuato dalla tradizione accademica dei concorsi poetici della Gaia Scienza di Tolosa, dal 1323 in poi.La dipendenza poetica dei catalani dura così fino al Quattrocento, un lungo periodo al termine del quale si verifica un brusco passaggio dalla continuità all'originalità e all'innovazione. Questa doppia uscita catalana nella ormai (felicemente) affermata "Biblioteca medievale" ci offre la possibilità di misurare sui testi la distanza percorsa nel periodo piuttosto breve di una trentina di anni.Nella prima parte di esso si colloca l'attività di Jordi de Sant Jordi, morto verso il 1424.Il sottotitolo che accompagna l'edizione è indubbiamente indovinato: Jordi è l'ultimo autore nel quale linguaggio e topica risalgono per larga parte ai provenzali, anche se accanto a essi si intravede la presenza del modello italiano (dai siciliani a Petrarca).Jordi è un cavaliere cortigiano del re Alfonso d'Aragona, che alterna la poesia al servizio militare e diplomatico per il proprio signore e, come per altri poeti catalani precedenti, è legato al mecenatismo della corte.Il fenomeno non è certo soltanto catalano, ma nella società ispanica - società, come si suol dire, sostanzialmente senza Rinascimento - la continuità con l'esperienza della poesia aristocratica e feudale del Medioevo diventa insuperabile.Non tutto però è imitazione o convenzione, e in certi casi Jordi, combinando immagini e rimanti dei trovatori classici con suggestioni provenienti da Dante (probabilmente quello "petroso") e Petrarca, smuove la scolastica ripetitività del modello cortese, con risultati a volte efficaci.Viene da pensare alla resistenza e alla viscosità dei modelli e degli stili, a una certa loro "adattabilità" ma anche alla possibilità, talvolta, di un loro energico ridimensionamento: subito dopo Jordi, infatti, scrive Ausiàs March (1400/1401-1459), il più grande poeta catalano del periodo - "senza dubbio il più grande poeta lirico europeo del quindicesimo secolo", si spinge a dire subito all'inizio della sua introduzione il curatore Costanzo Di Girolamo, e forse non ha tor- Devo dire subito che queste due novità catalane si salutano con soddisfazione soprattutto per March, del quale questa è la prima edizione italiana: edizione, anche se non completa, molto ben fatta, con introduzione, traduzione critica e un grosso commento.Per chi non lo conosce March è certamente una sorpresa.È un autore largamente innovativo, originale, anche se il risultato a cui arriva è frutto di un'operazione letteraria complessa, sfaccettata e anche contraddittoria.In primo luogo c'è la svolta linguistica: egli è il primo poeta catalano che compone nella sua lingua materna (lingua letteraria già dalla seconda metà del secolo XIII, ma soltanto nella prosa). Di Girolamo osserva che è forse stata la lettura dei nuovi classici volgari non provenzali, specialmente degli italiani e fra questi di Dante (la traduzione catalana della Commedia è completata nel 1429), a suggerire a March questo primo vistoso allontanamento dalle abitudini dei poeti catalani.Ma March ha proceduto molto più in là dei suoi colleghi e predecessori soprattutto nella rottura dai modelli ereditati dalla tradizione provenzale, e in questa operazione potrebbe di nuovo avere contato la lettura di Dante.Qui sta la novità della sua poesia, la sua nuova poetica, definita senza mezzi termini da Di Girolamo "del tutto irriducibile a qualsiasi antecedente", fondata com'è su "una nuova retorica del dettato poetico". Sono queste conclusioni possibili soltanto oggi, quando, uscendo da una concezione tutto sommato monolitica e unidirezionale dello sviluppo della lirica dal Medioevo all'Umanesimo, sono state in gran parte chiarite le differenze e le tensioni che animano la poesia dei trovatori prima, la varia dialettica dei continuatori poi. Di Girolamo cita l'opinione di chi, più di ottant'anni fa, ha potuto ritenere March un trovatore ritardatario: niente di più falso, anche se non dobbiamo pensare a un poeta moderno nel senso del petrarchismo o di un lirismo soggettivo e pre-romantico.Mi sembra invece che molto della indiscutibile suggestione che la poesia di March esercita stia proprio in una certa mescolanza di tratti, alcuni pianamente medievali, altri del tutto suoi.Di medievale c'è ovviamente la centralità dell'amore nell'ispirazione poetica, ma si tratta di un amore ormai spogliato di ogni funzione morale o salvifica e spesso ricondotto, nell'amante come nella donna, all'azione del desiderio.Un amore, dice March, "bello, (...) e brutto", sottoposto alla stessa mescolanza di carne e anima che è dell'uomo. C'è un "pessimismo" amoroso di March, anch'esso non più medievale, che in qualche modo continua e insieme rovescia il laicismo spirituale, sostanzialmente ottimista, già dei trovatori e poi di tutti i continuatori. Altri tratti di contenuto e di stile sono analogamente mescolati di vecchio e di nuovo.L'ambiente è privo del consueto décor della poesia medievale (inizi primaverili, fiori, uccelli, loci amoeni) ma singolarmente pieno di mondo grazie alle numerose e varie comparazioni che segnano le poesie; sono anch'esse un'eredità medievale, ma colpisce appunto la loro invadenza.Insieme, concetti e immagini tratti dalla medicina (più che dalla filosofia), specialmente a proposito della fisiologia e patologia dell'amore, largamente usate già da siciliani e stilnovisti. Tutto questo contribuisce alla formazione di una lirica "impura" (la definizione, molto azzeccata, è ancora del curatore), sentenziosa e narrativa - altro vistoso tratto medievale, almeno in quanto fuori dalla linea stabilita dal petrarchismo -, anche rigida e involuta e talvolta oscura; una lirica linguisticamente e stilisticamente argomentativa, tutta al di fuori del processo di raffinamento, di decantazione che, questo sì quasi sempre a direzione unica, va dai trovatori ancora a Petrarca. In qualche modo March è dunque un ritardatario - non certo però nel senso dell'epigonismo - e in altro modo anche un isolato.Non è possibile ipotizzare che cosa sarebbe accaduto dopo, se la sua poesia avrebbe fatto scuola o se invece anche la Catalogna sarebbe andata incontro a una sorta di "normalizzazione" nel segno del petrarchismo.Già durante la vita di March l'orientamento castigliano dei sovrani aragonesi prefigura la perdita dell'indipendenza politica e culturale dei paesi catalani, che si consumerà, pochi anni dopo la sua morte, con il matrimonio e poi la salita al trono di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. La riduzione della Catalogna a provincia non ferma la fortuna di March in Spagna, come testimoniano i molti manoscritti e stampe dei secoli XV e XVI, ma certamente il declino della produzione letteraria in catalano che immediatamente ne segue non poteva favorire la continuazione di un'esperienza poetica così singolare e straordinaria.
March, Ausiàs, Pagine del canzoniere, Luni, 1998
Jordi de Sant Jordi, L'amorosa cerchia. Poesie dell'ultimo trovatore, Luni, 1997
recensioni di Meliga, W. L'Indice del 1999, n. 01
to -, poeta alquanto distante da Jordi, suo quasi coetaneo, e naturalmente anche dalla precedente poesia catalana.
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