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Non credo che esista, nel panorama della critica letteraria italiana di oggi, una voce più distintiva di quella di Piero Boitani. E se "distintivo" dovesse richiamare qualcosa di particolare e localistico, va detto subito che qui siamo all'estremo opposto: Boitani si distingue per lo stupefacente universalismo delle letture, e per la versatilità con cui le fa fruttare, interagire fra loro. Il titolo del suo ultimo libro può apparire pretenzioso - da Omero all'11 settembre! - prima di leggere, ma risulta pienamente legittimo a lettura ultimata. Il volo: un'immagine, una figura che aggrega i discorsi più diversi per via di metafora, di concetto, di mito, di storia, di aspirazione, con la forza centripeta che solo un'erudizione eccezionale sa darle. Un'immagine esplorata in una campionatura straordinariamente vasta, poliglotta e plurigenere, che va davvero da Omero a Saint-Exupéry, da Pindaro a Kubrick a Del Giudice e agli eventi ultimi della nostra storia, passando per le grandi raffigurazioni dell'aria e dello spazio solcati dall'uomo, nella poesia epica come in quella lirica, nel vaticinio biblico come nella cronaca cittadina, nella retorica civile come nel cinematografo.
Finora Boitani ci aveva sorpreso seguendo il percorso del mito di Ulisse da Omero a Derek Walcott (L'ombra di Ulisse, 1992; Sulle orme di Ulisse, 1998), e rintracciando i passi degli scrittori nelle scritture che li hanno preceduti (Ri-Scritture, 1997), ma quelli erano esercizi diversi, suggestioni subito incarnate in personaggi, descrizioni, fatti e situazioni singolari; qui, invece, a emergere è qualcosa di più continuo, generale e astratto insieme, è la volontà di trascendere il terreno e contingente, di aggirare la quotidianità della natura per immetterla nel sublime della creazione, è l'immaginazione che sospinge ininterrotta questo anelito, è l'ansia di realizzarlo pienamente qui e ora; sono il potere, l'autorità, la civiltà che cercano i loro simboli e le loro narrazioni, ed è anche la libertà che al potere contrappone i suoi simboli, le sue narrazioni - il tutto ricompreso in un sogno che ci ha messo quattro millenni a realizzarsi fisicamente, ma non per questo è stato meno ardito, meno attuale, meno coinvolgente ed esigente nella storia dell'uomo.
"Immagine", abbiamo detto, per sottrarre queste pagine all'esclusivo dominio del "mito", e includerle in quello della letteratura, della retorica consapevole della propria risonanza celebrativa. Come dice Hans Blumenberg, il mito non è antropocentrico, e coinvolge l'uomo solo marginalmente nella storia degli dei; qui, invece, dagli dei e dai miti originari prendono spunto cinque capitoli intitolati rispettivamente a Pegaso, Icaro, Ermes, alle Alcioni e alle Aquile - ma l'uomo, con i suoi propositi, le sue ansie, i suoi errori, la sua poesis, è sempre ben al centro del quadro. È l'uomo come agente storico e intelletto poetante a provvedere che quelle figure mitiche si reincarnino nel tempo, e in un senso del tutto evoluto, modernamente civile: il primo capitolo si apre con un'analisi dell'Icaro di Lauro De Bosis, e del volo su Roma dal quale l'aviatore non tornò, e prosegue con Ovidio, Pierre Bersuire, Ariosto, Tansillo, Ronsard, Garcilaso de la Vega, Herrera, Tasso, Guarini, Goethe (l'Euforione del Faust), fino a Kafka e d'Annuzio; cioè, concentricamente, fino a tornare al punto di partenza.
Il sesto capitolo, magistrale, è dedicato alla interpretazione del famoso quadro di Bruegel, La caduta di Icaro, anzi, alle numerose interpretazioni che se ne sono avute per tutto il Novecento, e ai motivi, ai movimenti culturali, agli eventi storici che le hanno ispirate. L'ottavo è dedicato a "2001: il folle volo" che connette attraverso passaggi rivelatori la dantesca condanna di Ulisse al rifiuto delle azioni dei moderni kamikaze. Infine un epilogo-ricapitolazione, nel quale l'autore si sforza di trovare e indicare una direzione della sua storia, un significato complessivo, un momento nel quale possa apparire "giusto", a lui e ai suoi lettori, "decollare, volare e atterrare" - nel quale insomma poter tradurre tanta lettura, tanta e tanto ammirata dottrina in percezione attiva e fattiva, in rinnovato desiderio della parola poetica (le "parole alate" di Omero), e poi in giudizio sulla funzione di quella poesia, e poi in valutazione sugli esiti etici dei tanti voli immaginati, dei tanti voli compiuti.
Letteratura dunque, ma non solo: Boitani non pronuncia mai la parola "intertestualità", e credo di comprendere il perché: innanzitutto non vuole confinare nella gabbia della teoria il valore e l'orgoglio di un metodo tutto personale, elaborato al di fuori di qualsiasi riconoscibile scuola; ma poi perché vuole andare più in là della semplice indagine testuale; perché vuole sottrarre il suo polivalente percorso all'ipoteca di quella metadiscorsività che lui ritrova, fra i tanti autori trattati, soltanto in Pindaro, ma che, postmodernamente, potrebbe investire il concetto stesso di letteratura, e finire per coinvolgere tutto il suo discorso in quella che Paul de Man chiama "allegoria": il testo che significa innanzitutto la propria retoricità, la propria dipendenza da altri testi, e tenzone con essi. Funziona in questo senso il binomio richiamato nel titolo, che accampa una "poesia" in qualche modo distinguibile dalla "storia (...) perché [la letteratura] non parla soltanto a illustrazione di epoche e mutamenti, ma ha un modo proprio di disegnare voli e ombre che la storia è capace soltanto di sognare". Ovvero, e ancora, l'invenzione contro la documentazione, l'autoreferenzialità contro la mimesi: opposizioni che devono essere mantenute, osservate anche solo sullo sfondo, perché la Poesia possa continuare a incidere nella Storia: una prospettiva cui l'autore non sembra voler rinunciare.
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