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Sono appassionati di viaggi e in particolare di viaggi in Asia. Questo libro mi è piaciuto davvero molto e la vita dell'autore, papà della scrittrice Dacia Maraini, mi è sembrata una vita davvero incredibile.Lo consiglio
Recensioni
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Fu il nostro Chatwin e non ce ne siamo accorti? L'uscita di un "Meridiano" Mondadori speciale (appassionatamente curato da Franco Marcoaldi) dedicato a uno scrittore speciale, dopo la lettura di 1781 pagine, tutte godibilmente da lasciarsi scorrere addosso come pura acqua alpestre, non senza effetti rigeneranti, punge a qualche bilancio. Al di là della differenza generazionale essenziale, certo tra il viaggiatore, etnologo, alpinista, orientalista Maraini (1912-2004) e il riconoscibile e riconosciutissimo prototipo del viaggiatore scrittore contemporaneo Chatwin (1940-1989), non sarà solo per un gioco alla Plutarco che si avvierà la danza parallela.
Inglesissimo Chatwin, certo, non solo d'origine, ma di mentalità. Non s'intende l'autore di In Patagonia senza l'idea e l'ideale del colonialismo inglese: la superiorità distaccata, di cui l'ironia è solo una delle maschere, verso ogni aspetto del mondo e il suo dominio per via d'intelligenza dissimulatamente superiore. Figlio di uno scultore elvetico-romano, amato da Mussolini, e di Yoi Crosse, nata dall'unione di una donna polacca con un proprietario terriero anglosassone, Fosco nasce in buona parte "inglese". L'Inghilterra è la sua "Grecia dell'anima", per dichiarazione del medesimo interessato, almeno nell'adolescenza fiorentina. Legati al mondo dell'arte tutti e due. Chatwin attraverso il suo lavoro di esperto presso la casa d'aste Sotheby's. Fosco perché precocemente dalla terra toscana dove il Rinascimento lo poteva respirare, passò allo studio dell'arte orientale come accompagnatore e fotografo delle famose spedizioni in Tibet del più grande orientalista italiano, Giuseppe Tucci (due spedizioni: 1937 e 1948). E poi nei suoi rapporti, o meglio nella sua vita giapponese (Ore giapponesi, 1957).
Tutti e due accompagnarono la parola, la scrittura con l'immagine fotografica. Per tutti e due il viaggio è innanzitutto conoscenza e intreccio di legami con le persone. E non a caso l'uno e l'altro elaborarono teorie semplificatorie del rapporto con le genti e il mondo. A Chatwin appartiene l'utopia nomadistica, coltivata per una vita, senza frutto immediato: non riuscì mai a scrivere il grande libro sui nomadi e il nomadismo. A Maraini la teoria dell'esocosmo e dell'endocosmo, che è un po' il filo conduttore delle migliaia di pagine "meridiane". L'esocosmo è l'universo di fuori, l'universo fisico esterno e l'endocosmo è il mondo interiore del singolo, o di un gruppo umano, che riflette quello esterno: allora "viaggiare è un allargare l'endocosmo nutrendolo di esocosmo". Com'è evidente: tutte e due utopie ingenue, di tipo naïf, anche se per via ipercolta. Quella di Maraini persino banale (e Marcoaldi nella sua devozione all'autore non evita il trabocchetto), se non fosse riscattata da una personalità ben altrimenti ricca e complessa, incline, più per virtù che per vizio, dopo tanto camminare, documentare, conoscere, scrivere, alle più fulminee sintesi.
Quella stessa concezione del viaggio che tenderebbe a riporli nello stesso scaffale della nostra libreria, in realtà alla fine li divarica drasticamente. Non solo perché Chatwin, quale cittadino britannico, si sente cittadino in ogni angolo della terra (Europa, Patagonia, Africa, Australia aborigena); e invece fin dall'adolescenza Fosco decide di studiare puntualmente i popoli non indoeuropei: tibetani, indiani, giapponesi. Ma perché del viaggio Chatiwin, dandy inglese senza più impero, ha una concezione estetica, estetico-narrativa, coglie cose e persone come l'entomologo le farfalle nel suo retino per poi farne bella mostra, sottile spettacolo raccontato con understatement agli amici. Mentre Maraini del viaggio coltivò un'idea cognitiva ed etica, una forma di missione scanzonata e allegra, ma non meno impegnata moralmente nella misura delle civiltà per noi più lontane. E della nostra attraverso quelle. Si sente a ogni riga che Chatwin inquadra, mette a fuoco ogni oggetto per trasformarlo in episodio letterario. Maraini si getta nel viaggio innanzitutto empaticamente, per abbracciare chi ha di fronte, genuflettersi o prenderlo in giro. Ma per capirlo fino in fondo, se possibile. Sempre. E a costo di modificare se stesso. Di fronte a un Chatwin, invece, che si ammira nello specchio sempre identico.
In Maraini e nei suoi scritti prevale, non la letteratura (si vieta o non gli riescono, infatti, i congegni raffinati del romanzo alla Chatwin, bravissimo nell'invenzione di personaggi), ma la vita. Non a caso in ognuna delle sue grandi opere (Segreto Tibet, 1951, e appunto Ore giapponesi, ma persino nei due libri alpinistici così importanti, che Marcoaldi ha giustamente accolto in antologia: Gasherbrun IV, 1959, e Paropàmiso, 1963) circola un diffuso erotismo. Che in Chatwin è represso o emarginato, ben presto il lettore se ne accorge come di un vuoto sottostante l'abilissima impalcatura narrativa. "Odio l'esotismo, quel senso del selvaggio come curiosità, dello straniero come stranezza (
) Il selvaggio, il barbaro non è uno scherzo della natura: lo siamo noi, piuttosto, anche se il più riuscito", sosteneva Maraini. Né esotismo, né identificazione, per Fosco, che rimane pur sempre un uomo occidentale, anzi "rinascimentale" (tranne forse negli ultimi anni della sua lunga vita, passati nella Garfagnana con la compagna nipponica), ma flessibile come cimello di bambù fino ad accostarsi, unire la pelle (negli ultimi anni persino i tratti del volto) con l'Oriente. Così le sue foto e la sua straordinaria e pionieristica attività di documentarista cinematografico (Gli ultimi Ainu, L'isola delle pescatrici, ecc.) non hanno a che fare con il collezionismo, ma da un lato con la scienza etnografica, dall'altro con il neorealismo filmico.
A questo punto, prevedibilmente, le parallele, si spezzano e non s'avvicineranno più. E si spezzano in tutti i punti in cui il lettore dell'intera opera di Maraini sorprende una straordinaria specie di comparatista. Il compito etico di avvicinare le civiltà più lontane non per assimilazione o per via di freddo referto (come a volte gli etnografi alla Tucci), si realizza nell'esaltazione delle differenze. Ed è qui uno dei frutti più belli, piacevoli e istruttivi delle sue pagine. Nel confronto tra il sorriso della Gioconda e quello del Buddha, tra Assisi ed Elephanta, tra il giardino europeo e quello nipponico, tra il bagno europeo e quello giapponese, tra scrittura alfabetica e scrittura ideografica, tra i soldati statunitensi all'indomani della vittoria e le loro donne giapponesi sposate nella terra appena vinta (tutti accostamenti giocati in mondo persino brusco, se non avesse la grazia dell'affabilità), Maraini ricerca un minimo denominatore umano. E mentre è assente in un Chatwin qualsiasi senso del religioso e l'ideologia, quando affiora ("Che ci faccio qui?") è banalmente politically correct, Maraini coltivò un'aperta, radiosa religiosità naturale, una disponibilità al riconoscimento di un dio che chissà perché dovrebbe rivelarsi nelle scritture e per giunta a un popolo solo, privilegiato (così commenta nella sua personale storia delle religioni), ma si svela "in maniera perenne attraverso la vita e il mondo stesso, ugualmente a tutti gli esseri".
Perciò il titolo dato da Marcoaldi, Pellegrino in Oriente, è azzeccato e depistante. Depistante perché nella temperie attuale potrebbe fare pensare a chissà quali riflussi verso la religione. Azzeccato se viene ricondotto alla stessa autodefinizione di Maraini: "Pellegrino per venerazione e curiosità". Venerazione, attenti, in senso giapponese, come riconoscimento della presenza costante del divino nella natura e nel tutto. Forse il titolo editoriale suona anche a risarcimento. Un risarcimento alla cultura italiana, così scarsa se non addirittura priva di viaggiatori autentici. Così pronta a innamorarsi di quelli esotici. E un risarcimento al personaggio italiano dalla biografia culturale più avventurosa che si possa concepire o, se si preferisce, alla figura di non italico di Fosco, bestseller all'estero, apprezzato in patria da un più largo pubblico forse solo dopo l'ultimo libro, Case, amori, universi, 1999 (che qui non compare se non in un gruzzolo di pagine). Per fortuna ora c'è questo volume che si può leggere pure come un rinnovato tentativo di mantenere intellettualmente, emozionalmente viva la compagine nazionale, per via, come dire, geografico-romanzesca (dove il romanzesco è soprattutto nei fatti certi dell'autobiografia). Insomma, ciò che le grandi narrazioni dell'Ottocento fecero per la nascita della nazione. Ma è ancora tempo? Giorgio Bertone
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