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recensioni di Bardi, M. L'Indice del 1999, n. 12
Nel racconto in prima persona di Dora Spengel si accampa in primo piano un paravento, su cui la donna incolla, secondo un costume adolescenziale, i minuti documenti della sua vita quotidiana: biglietti di autobus, foto, pezzi di ricordi e di sogni, fondi di caffè, le ali di un angelo di pietra. Il paravento è dunque il luogo della memoria o della ricerca spasmodica di un senso oppure rappresenta il tentativo di sfuggire alla minaccia costante di una dispersione o ancora "gli occhi di Dio muti immobili freddi".
Dora porta con sé il paravento nei molti traslochi e porta con sé soprattutto i sensi di una sensibilità esasperata e visionaria in virtù della quale può comunicare con il mondo dei morti, assistere in modo ricorrente a immagini angoscianti (rivoli di sangue che scorrono giù dalle pareti delle stanze, guerre, terremoti e rovine), attraversare le esperienze dolorose di un aborto e di un ricovero manicomiale. In questa vita itinerante e continuamente rifondata è Dora stessa tuttavia ad aggrapparsi ad alcune zattere che hanno il compito di arginare o ritardare la deriva: compone un libro infinito, battendo sui tasti di un computer, scopre la forza dell'amicizia femminile coltivando il rapporto con Iride, vive una simbiosi amorosa con la figlia Virginie (che è l'alter ego di quella bimba abortita, sembianza di polvere a cui Dora si attende di dover dare molte spiegazioni). Quella della donna è una lotta quotidiana fatta di fatiche che culmina con un'immagine di morte (di Dora stessa, che sopravvive a se stessa nel proprio doppio narrante, e della memoria, persa a causa dello smagnetizzamento dei dischetti a cui aveva affidato il suo lungo racconto).
Ma il punto di vista di Dora non è il prodotto di una deformazione fantastica o di un'anomalia della percezione. Al contrario risulta subito evidente che sotto il suo discorso (che si svolge per folgorazioni e immagini oniriche che sembrano tolte dal catalogo astratto della Castaldi pittrice) la trama si dipana sotterranea ma coerente e spietatamente plausibile e vera. La lotta di Dora nasce dalla contrapposizione fra la realtà quotidiana (fatta di sfratti, licenziamenti, amplessi con uomini che hanno mani "come tenaglie") e la propria verità "poetica", rinvenuta con uno scavo interiore continuo, perseguita attraverso i dialoghi con gli assenti, con i lontani nel tempo e nello spazio, con gli affini che abitano altrove.
Dal momento che sono soggetti a perdite repentine, a rovina e a esplosioni sia la casa (che si copre di polvere, nega l'ingresso a Dora, deve essere occupata da nuovi inquilini) sia il mondo esterno (che riproduce nella Pfeffingerstrasse gli spettacoli televisivi di stragi, guerre, infanticidi e distruzioni), alla donna spetta il compito di ritrovare fra le macerie i lacerti di storia e d'identità per riattaccarli sul suo paravento. Ma l'operazione viene compiuta per mezzo di una scrittura alta e raffinatissima, che non discende direttamente dai modelli a cui si sarebbe tentati di riportare il racconto: non c'è parentela con il topos novecentesco della follia o del disadattamento alla vita (eppure lo stile può riprodurre un delirio solitario e disperato), non c'è debito nei confronti del romanzo sudamericano nonostante la comunicazione fra il mondo dei vivi e quello dei morti e nonostante gli eccessi di produzione fantastica. Il racconto procede per folgorazioni in sentore di poesia, e se nulla concede ai modelli dal punto di vista formale - in una ricerca sperimentale e decostruttiva perseguita con il gusto dell'estremo - Marosia Castaldi nulla concede neppure ai luoghi comuni della specificità femminile e della differenza. Eppure il romanzo tocca proprio gli snodi classici della maternità e dell'incontro/scontro con il maschile, secondo una prospettiva che rifugge tuttavia da ogni ovvietà.
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