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«Il mio padrone è Luigino Pizza, che tutti lo chiamano così a causa delle pizzerie ... Io mi chiamo Pericle Scalzone ... Di mestiere faccio il culo alla gente». Così comincia Pericle il Nero, primo romanzo di un autore che ha alle spalle una scuola severa di sceneggiatore di fumetti e una vita a dir poco avventurosa – che racconta però malvolentieri, preferendo raccontare storie. Questa di Pericle è un impeccabile noir, girato come un buon film americano degli anni Quaranta, con un ritmo secco, un plot che non perde un colpo e personaggi che hanno uno spessore del tutto ignoto ai cliché imposti dal genere: Pericle, l’uomo-cane che diventa uomo e acquisisce consapevolezza di sé attraverso il rifiuto delle regole del suo mondo e l’incontro con una strana donna; e questa donna, Nastasia, la polacca finita a lavorare a Pescara in una fabbrica di copertoni, che se lo porta a casa e se lo porterà, forse, anche più lontano; e Signorinella, la temibile e potentissima sorella del boss Ermenegildo Coppola, capo delle supplicanti di san Gennaro, che, «quando parlava di uccidere, si metteva le mani sulla faccia perché non le piaceva e diceva che tutti sono figli di mamma»; e gli altri, attori e comparse delineati con pochi tratti precisi, in una lingua asciutta ma venata delle coloriture, talvolta inattese e sempre misuratissime, del parlato popolare.
Pericle il Nero è apparso nel 1993 da Granata Press, ma gli unici che abbiano dato segno di essersene accorti sono stati i francesi, i quali due anni dopo lo hanno pubblicato nella celebre «Série noire» di Gallimard.
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Libro bellissimo. Super consigliato
Recensioni
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scheda di Vittori, M.V., L'Indice 1998, n. 8
Come prima notizia di sé, l'io narrante ci comunica che ha un padrone. E gradualmente, con la descrizione di questo padrone, tale Luigino Pizza, capo-clan di uno dei tanti clan napoletani, e delle sue mansioni di brutale esecutore di intimidazioni e ritorsioni, si delinea in pochi tratti essenziali un microcosmo di ordinaria malavita. Per uno sgarro involontariamente commesso alla sorella di un boss, Pericle - questo il nome incongruamente classico dell'uomo-cane - si fa terra bruciata intorno. Gli ammazzano gli unici parenti rimasti, quelli con cui vive; scampato fortunosamente al massacro, si rintana in un buco come un animale braccato, fino a quando non riesce ad allontanarsi. Conosce una donna, Natascia; torna per la vendetta, ma poi si prepara ad andarsene. Per sempre, e magari proprio con Natascia. Fin qui, il copione allestito da Giuseppe Ferrandino sembra uguale a tanti altri di stampo noir: ma la diversità, l'anomalia sta nel punto di vista da cui vengono registrati gli avvenimenti, quello di una persona limitata qual è Pericle: scarsa intelligenza, un esiguo numero di schemi entro cui sistemare la complessità del reale, uno scarno gruzzolo di parole per definire cose e persone. Ricorda uno di quei personaggi cari ai narratori sperimentali degli anni sessanta, che riuscivano a ricondurre ogni genere di storia naturalistica lungo i binari della riduzione al grado zero: sottrazione graduale di orpelli e artifici narrativi fino a far emergere i tralicci portanti della realtà. Una realtà che, come sostiene Pericle, non si fa comunque influenzare o condizionare dai pensieri: "è più conveniente fare, perché tanto a pensare ti attacchi al tram". Cosicché Pericle è puro congegno reattivo e istintuale, e lo schema dei suoi impulsi e delle sue reazioni è riprodotto da un nitido tracciato ritmico, da una scrittura talmente spoglia e rigorosa da eludere perfino le tentazioni coloristiche del dialetto.
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