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Che bisogno aveva il Marchese de Sade di tredici veri anni di manicomio per smentire il mondo con la sua reale grandezza? Nessuno! Ma ce la fece lo stesso in barba ai bacchettoni e ai preteschi detrattori che lo osteggiarono sempre, e ce la fece con questo lavoro in cui Weiss lo omaggia adattando la scena in un gioco di ruoli così originale da renderlo, senza possibilità di dubbio, uno dei drammi teatrali più leggendari e acclamati del secondo Novecento. Fra dialoghi serratissimi, in una costruzione che è quella del "teatro nel teatro", un Sade umilmente lucido e potentemente morale discetta sul seme della Rivoluzione, e ricorda i suoi anni alla Bastiglia, condannato lì per aver descritto il vero nei suoi libri, gli eccessi corporali di un'aristocrazia ormai perduta. Ma nel suo genio sincero, da questi sollazzi egli non escludeva affatto se stesso. Le sue parole nell'opera si alternano a quelle di Marat, sempre fermo nella sua indispensabile tinozza e nei suoi altissimi proclami, e suonano in definitiva come una profonda riflessione sulle antitesi della violenza, tratto che segnerà tutto il testo, simile a una spirale dove torti e ragioni dei due principali protagonisti si sfideranno in sferzate stupende. Dirà Sade: "Ma poi vidi, quando sedevo io stesso in tribunale, giudice e non più reo, che non ero capace di dare gli imputati in mano al boia; mi sono adoperato per assolverli o farli scampare in qualche modo. Vidi realizzate le mie stesse profezie, come le donne arrivavano di corsa stringendo nelle mani sanguinanti gli strumenti recisi del sesso maschile". E mentre Charlotte Corday è lì acquattata col suo pugnale, sempre sospesa fra l'attesa e il gesto, il grande Jean Paul riflette sul destino di quei fatti: "Noi non assassiniamo, uccidiamo per difenderci, noi combattiamo per le nostre vite". Uno scontro fra due anime veramente d'eccezione, due cantori dell'irriducibile pagato in prima persona che è ormai impronta di mito. Da leggere e soprattutto vedere!
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