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I suoi personaggi, sempre donne, per lo più fanciulle contadine allo schiudersi di aspettative subito deluse, o vecchie sul finire della vita che ricordano; presso paesaggi di campagna che portano le piaghe della storia. E incastrate tra queste piaghe e un frammento di dolore personale intensissimo, le donne di Laura Pariani discorrono con l'immensità.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Trovo sia il libro più riuscito della Pariani.Semplicemente perfetto.Avvincente la trama e l'argomentazione storica.Originalissima e particolare la struttura in quattordici notturni.
Recensioni
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recensione di Vittori, M.V., L'Indice 1995, n. 8
L'angosciato interrogativo di Eschilo: "Chi potrà mai dalle nostre case scacciare il seme del dolore?" posto come epigrafe al racconto "Di madre in figlia" potrebbe bene intonarsi anche alle altre storie narrate da Laura Pariani: proprio come alle eroine delle tragedie greche, Cassandra, Antigone, Giocasta, alle protagoniste femminili s'addicono dolore, angoscia, lutto.
Diverse le collocazioni temporali: nel pieno di una guerra tra francesi e spagnoli nel 1646, tra l'avventura napoleonica e le battaglie risorgimentali, durante la prima guerra mondiale, in quegli anni sessanta in bilico tra repressione e ribellione, negli anni ottanta che hanno voluto dimenticare troppo in fretta: ma sorelle, tra loro, le storie. Trovano il loro posto nella cornice di un'attrazione che si dipana, lenta e velenosa, tra una bambina immaginosa e inquieta e un misterioso straccivendolo, e raccontano, anch'esse, di attrazioni ineludibili e mortali, di abbandoni e sofferenze, di ambigui labirinti d'orrore e incanto in cui è facile perdersi.
Alle donne è dunque demandato il compito di riassumere quel "guazzabuglio di inganni, autoinganni e disinganni" che è la vita: di madre in figlia, con l'ingombrante eredità di carne e di sangue che si riverbera perfino nei tramonti e nei romanzi, com'è ben descritto in "Amapola"; con un strascico ininterrotto d'incomprensioni e di rancori, com'è raccontato nell'amara storia di Carlina e Antonella; col destino di vittima sacrificale che spesso la famiglia e la storia in feroce alleanza si sono incaricate di attuare, com'è rappresentato attraverso le vicende della vecchia Delàida e, in modo particolarmente intenso e struggente, attraverso il Pìu, fuscello nel vento di una guerra orrenda, che perde sua madre e poi, a opera di un padre reso folle dal dolore, la sua femminilità e l'uomo che, nonostante tutto, l'aveva amata.
Delle storie di queste donne, rese con un ritmo teso, battuto e con un impasto lessicale di rara efficacia in cui s'accordano la saporosa, ruvidezza del dialetto e riferimento squisitamente letterari, restano immagini forti: il pipistrello nero e metallico che appare alla Guerina, fosco involucro dell'"àngiul Gabrièl", lo spazio immenso della Patagonia che è, per l'adolescente, respiro di libertà, il sorriso "arcangelico e balossètto" del Grande Lupo, incarnazione, da sempre del proibito e, soprattutto, un pettine. Proprio il pettine che era stato accattivante regalo di un rigattiere ambulante al Pìu e da lei pietosamente usato per ravviare i capelli del suo povero piamuntés morto, ora passa - incredibile eredità - nelle mani di quella bambina sventata, incantata - povera lei - dai Grande Lupo che si è fatto, di nuovo, straccivendolo.
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