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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2014
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Tripla " e " eccellente, esaustivo, elegante. Scritto in punta di penna, con sapienza e distaccato garbo, lettura fluida, anche in presenza di argomenti prettamente tecnicistici, sempre trattati con approccio divulgativo. Un sereno e competente compagno di viaggio nell'universo del pianista e dintorni....
Molto interessante.
Recensioni
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Quel che ogni pianista deve sapere, L'arte di suonare il pianoforte, Il romanzo del pianoforte, Estetica dell'esecuzione pianistica: si direbbe che la mole del gran coda induca a largheggiare con l'enfasi persino nei titoli, quando si decide di farla oggetto di un libro. Charles Rosen, musicologo e pianista, ma soprattutto conferenziere di grande fascino, vola più basso, scegliendo un titolo da taccuino musicale, Piano Notes, che la traduzione italiana ha accortamente mantenuto: e non per pigrizia, come si usa di recente con i titoli dei film, ma per l'oggettiva impossibilità di trovare nella nostra lingua un corrispettivo altrettanto sintetico e indovinato.
C'è il meglio di Rosen in queste duecento pagine che si leggono d'un fiato come un poliziesco: l'esperienza di una lunga carriera come pianista e il piacere della conversazione, il senso dell'umorismo, una curiosità contagiosa per la musica nei suoi aspetti teorici e pratici: non avulsa dal reo mondo, quindi, ma goduta in blocco con il corredo di imprevisti e terrene imperfezioni che di necessità la contornano. Trascinato dal piacere evidente con cui si intrattiene a parlare di concerti, repertorio, strumenti, accordatura, acustica, registrazioni, memoria, tensione nervosa, Rosen non si lascia andare a parlare troppo di sé; anzi, nelle prime pagine avanza scuse preventive per aver attinto ad alcuni aneddoti personali. Aneddoti mai pretestuosi, che servono a chiarire in concreto le premesse generali del discorso e a garantire con la loro stessa presenza le ragioni di chi scrive.
"I pianisti non dedicano la loro vita al proprio strumento semplicemente perché amano la musica: questo non basterebbe a giustificare un'esistenza triste fatta di aerei asfittici, scomode stanze d'albergo e ore passate a cercare di convincere il tecnico dei pianoforti del posto ad aggiustare il pedale una corda"; l'appassionato tira un sospiro di sollievo al pensiero d'averla scampata bella, il professionista ringrazia per il conforto morale, e tutti e due procedono avidamente nella lettura. Che fin dalle prime pagine, fra le pieghe di questo tono apparentemente disimpegnato, elargisce osservazioni critiche di estrema finezza: quando per esempio parla di difficoltà non virtuosistiche né tantomeno gratuite, ma necessarie, talvolta, alla scrittura pianistica per restituire effetti ben precisi: "L'imitazione di un cantante che cerca di rendere una nota acuta" in un Intermezzodi Brahms, per esempio; o lo scomodissimo canone a due voci (ma una mano sola) in una Mazurca di Chopin. Molte pagine tornano sul problema della straordinaria ambiguità del pianoforte, capace da un lato di riprodurre qualsiasi partitura, anche quelle destinate ad altri strumenti, e dall'altro relativamente poco differenziato nella propria gamma timbrica: fenomeno poi assecondato anche troppo dai costruttori di pianoforti.
"Non esiste la posizione ottimale per star seduti al pianoforte (…) Glenn Gould sedeva quasi sul pavimento, mentre Arthur Rubinstein stava quasi in piedi": il che non dà carta bianca alle stramberie, ma invita piuttosto a valutare le caratteristiche della propria corporatura, della propria mano, del repertorio e dei singoli passaggi. Una volta affrontati i problemi di esecuzione vera e propria (sull'uso del pedale c'è un piccolo trattato, di chiarezza ammirevole e di enorme utilità storica e pratica), ecco i guai legati alla struttura dello strumento, dal legno alla corsa del tasto alla forma del martelletto all'innesto delle corde sul telaio; qui trapela l'ammirazione per i bravi accordatori: è vero che, secondo Busoni, "non esistono cattivi pianoforti, ma soltanto cattivi pianisti"; però, per un buon pianista, avere sotto le dita uno strumento sistemato a perfezione risolve non pochi problemi. Non manca una parte riservata alla didattica: allievo di Moritz Rosenthal, Rosen non ha studiato in conservatorio né lo rimpiange troppo; non ama le masterclass ("come la terapia di gruppo, è un modo per guadagnare più soldi e lavorare meno") perché lodi e strigliate si possono dare in privato, ma sono sgradevoli in pubblico; e non ha un rapporto idilliaco con i concorsi, dove a quanto pare si annoia terribilmente.
Infine, l'autore è pronto per il concerto, celestiale supplizio a cui dedica un capitolo; alle volte basta una frase infelice ascoltata appena prima di un recital ("Come fate voi solisti a ricordarvi così tanti brani?", "Se sbagli l'attacco della 106 pensi di farlo, il ritornello?") per sentire correre i brividi nella schiena; e l'ascoltatore dotto che sfoglia implacabile lo spartito dalla sua postazione in prima fila può creare una vera crisi di nervi e di memoria.
Così il "mondo del pianista" viene componendosi sotto i nostri occhi in frammenti di paradiso e qualche scottatura infernale: e Rosen lo restituisce con un'arguzia che nulla toglie all'assoluta precisione e alla scientificità delle sue argomentazioni, per la gioia di esperti e amatori.
Elisabetta Fava
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