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Chiunque scrivesse che "la scienza è appassionante come un romanzo" probabilmente le farebbe torto. Il romanzo è una creazione della natura (dell'essere umano in particolare), è quindi una sorta di "metanatura", e leggere un romanzo porta a una relazione con questa "metanatura". La scienza, al contrario, si occupa della natura "tout court" e fare scienza sta allora un livello più in basso, più "vicino al centro". La passione per la scienza (o meglio data dalla scienza), ricerca del dato oggettivo sulle cose e conseguente riflessione sullo stesso, è forzatamente diversa dalla passione generata dalla lettura di un'opera di finzione.
Tutto ciò non vuol dire naturalmente che non si possano scrivere buoni romanzi sulla scienza, a partire dalla scienza, e capaci di presentare (e riflettere) sotto diversi punti di vista e a diversi livelli sull'opera di chi "fa" scienza. È il caso di questo libro di Marta Paterlini, l'appassionante racconto della vita scientifica (e non solo) di Max Perutz e dei suoi collaboratori e, insieme, il racconto dell'elucidarsi progressivo della struttura e del funzionamento dell'emoglobina.
Perutz, austriaco di origine, fuggito dai nazisti all'inizio della seconda guerra mondiale, ha vissuto in Gran Bretagna, a Cambridge, la maggior parte del suo percorso umano e scientifico. Vincitore del premio Nobel per la chimica nel 1962, Perutz può essere considerato il pioniere dell'utilizzo della diffrattometria a raggi X su grandi molecole organiche. Oltre ad aver affinato nel corso dei decenni la tecnica strumentale, Perutz ha dedicato la quasi totalità dei suoi sforzi professionali a una sola molecola, l'emoglobina appunto. L'opera di Paterlini (sarebbe riduttivo definirla semplicemente "romanzo") ripercorre con continuità (e con qualche flashback) il percorso umano con gli spostamenti a cui la vita lo ha costretto e soprattutto scientifico di Perutz, i rapporti con collaboratori e "concorrenti", le gioie e le speranze, ma anche le tristezze e le angosce del lavoro di biochimico sperimentale.
Viene da pensare che in quest'opera (nata come tesi per il master in comunicazione della scienza della Sissa di Trieste) Paterlini forse racconta anche un po' di sé. Lei stessa neurobiologa, ha probabilmente vissuto le lunghe attese del laboratorio, la concentrazione e la precisione del lavoro sperimentale, le delusioni dei risultati negativi, ma anche la loro felice potenzialità e le difficoltà di interpretare quanto si ottiene dalla "cruda materia". Questa fatica, peraltro spesso gioiosa, del lavoro sperimentale (in cui Perutz eccelleva più che nel comunicare) si coglie molto bene in Piccole visioni, e ne è forse tra le note caratteristiche più significative. A chi si addentra nella lettura del libro rimane sicuramente molto dell'atmosfera del laboratorio, tanto umana quanto tecnico-professionale. E per chi fa ricerca oggi è consolante vedere come le difficoltà di spazi, denaro, attrezzature siano le stesse di ogni tempo. Il fatto stesso che Perutz non abbia avuto una position permanente fino praticamente al premio Nobel può far riflettere i ricercatori attualmente impegnati nel loro lavoro. E il fatto che nei suoi decenni di lento e comunque progressivo lavoro nessuno abbia mai chiesto a Perutz un rendiconto semestrale delle sue attività può invece far riflettere tutti coloro che, a vario titolo, si occupano oggi di governance della ricerca scientifica.
L'avventura scientifica di Max Perutz comincia in Austria prima della guerra e si conclude parecchi decenni dopo. In mezzo ci sono, narrati con precisione e levità, anni e anni di insuccessi e lenti successi, di gioie e dolori, di "piccole visioni", piccole come quelle molecole che Perutz e il suo gruppo hanno con costanza e decisione delucidato e ingrandito a una visione possibile a un pubblico più ampio di quello dei ricercatori. Pubblico, se possibile, ancora più ampio dopo la pubblicazione di questo racconto.
Non sono i piccoli errori di scrittura a inficiare il valore di un'opera come questa. Parole come "figure" (ripetuto numerose volte in una pagina al posto di "cifre, numeri"), "ligando" (al posto di "legante"), "processamento", "solfidrilico", o un "aveva transitato", tradiscono una possibile traduzione dall'inglese.
Altri errori più "scientifici" (non è "un legame covalente carbonio-carbonio" ma "una mole di legami covalenti" a richiedere circa 80, e non 50, kilocalorie per rompersi; e cosa vuol dire che "nella deossiemoglobina (
) ciascun eme aveva quattro elettroni spaiati, attaccati al proprio atomo di ferro con legami ionici o tramite elettroni più deboli"?) o la mancanza in nota di alcune citazioni tradiscono le fatiche di un lavoro che deve essere stato decisamente impegnativo. Proprio la presenza di quasi trecento citazioni (numerose quelle delle lettere e dei lavori di Perutz) mostrano che ci si trova tra l'altro davanti a un lavoro assai documentato e significativo dal punto di vista storiografico, che non è quindi soltanto racconto appassionante e spaccato di vita vissuta.
Assieme a citazioni, note di colore e ricordi, Piccole visioni vede nel suo svolgersi anche la presenza di numerose spiegazioni scientifiche, abbastanza semplificate rispetto alle trattazioni quantitative ma spesso un po' impegnative per il lettore comune. Questo naturalmente non deve spaventare: le trattazioni sono in genere brevi e, anche se richiedono un poco più di impegno, non annoiano. D'altra parte già il chimico Primo Levi, quasi trent'anni fa, ammoniva il lettore che aveva digerito senza battere ciglio bompressi e palischerni dei romanzi d'avventura a non lamentarsi troppo per i termini tecnici che usava nei suoi racconti di carattere più schiettamente chimico-professionale.
In questo affascinante racconto, capace davvero di unire rigore ed emozione, il momento in cui la struttura dell'emoglobina è rivelata per la prima volta è appassionante quanto la scoperta del killer di un giallo o l'ingresso nella camera murata di una biblioteca medievale. O forse ancora di più, perché l'emoglobina fa parte della vita quotidiana, ma non per questo non è fonte e origine di bellezza e di stupore. E, proprio perché questo non è un romanzo, l'apice del racconto non ne segna la fine. Al contrario, continua, come le scoperte e i successi.
Ugo Finardi
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