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Landolfi da scoprire... Scrittura ricercata ma scorrevole come buona musica. L'amore femminile in tutte le sue forme, amore come abbandono irrazionale mitico bestiale, amore come accettazione e comprensione di diversi registri e sfere sensoriali... Un bagaglio rurale ed istintuale che definire solo fantastico mi pare riduttivo... Vestire la realtà di sogno con gusto ed intelligenza e farne buona letteratura...
Forse l'opera migliore di Landolfi, di certo il coronamento di tutto il suo primo periodo, quando il surreale e l'amore per gli animali non erano ancora offuscati dalle pesanti e spesso inconcludenti ricerche lessicali. La pietra lunare è il vortice che racchiude le storie del Dialogo dei massimi sistemi, un componimento che ricorda Novalis (tradotto da Landolfi) e la poetica di Percy Shelley e John Keats. Pur non avendo un lessico comune è leggibilissimo, quasi allegro in confronto a tutte le opere successive, con la capretta Gurù che si rivela un personaggio dolce e interessantissimo e il suo amore per l'alter ego dell'autore in un paesino in cui di notte le creature mitologiche escono e festeggiano, vivono e combattono. La scena culmine ricorda i sabba delle streghe nel folklore ben diffuso nel sud Italia di quegli anni, ben descritta anche la trasformazione delle capre mannare. Tutto sommato è l'unica storia a lieto fine di Landolfi, ma non è solo per questo che questo libro ancora merita di essere letto, scoperto e ricordato. C'è tutta la mitologia di un mondo scomparso che ancora si porta dentro.
Sembra che un dandy impomatato, sbronzo della più fine poesia barricata, seguace d’un purismo incanutito, abbia avuto una tresca col fantastico, un lascivo amorazzo col grottesco. E come ogni ibrido mal suturato da bestiario, per colmo di stranezza, inorridisce e meraviglia a un tempo. Ma dopotutto qui ogni cosa, dalla forma ai contenuti, è follemente ibridato, mescolato, contaminato, in una parata senza legge di spietati guerrieri, sinistri mannari e divinità notturne. L’irrazionale coincide col sovrannaturale, il sovrannaturale rimanda al sensuale, il sensuale al bestiale. È un divertimento perverso quello di Landolfi, un piacere onanistico cui forse soltanto l’altrettanto strambo lettore può abbandonarsi, se gli va, mentre con una prosa che odora di carta vizza e polvere di biblioteca, tesse l’ancestrale sortilegio che avvince l’orecchio affamato del virginale bambino alla bocca traboccante come cornucopia del cantastorie. Nemmeno uno dei suoi mille veli di bisso l’intabarrato occulto lascia cadere. Il mistero porge orecchio alle domande, ma perché rimanga tale, d’invulnerabile bellezza, nega con ghignante silenzio anche una sola risposta. E perché cercare la logica nell’illogico, nel gratuito, nella bontà? I sogni sono imbruttiti dacché hanno preso a interpretarli. Do testimonianza della mia esperienza: quando Landolfi e la sua musa caprina ci inoltrano nel fitto della foresta, e il ghiribizzo pagano s’avvia all’incubo barocco, il volume fra le mani prende peso, mena odore di terriccio, si fa zolla incrostata di muschi e licheni, florida di funghi e corimbi, solcata da bruchi nero-gialli e sciami dorati, coi fili d’erba che avanzano a solleticare il viso. Di chi può ciò, va letto tutto lo scritto reperibile.
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