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Pesante, inconcludente, eppure gli ingredienti c'erano tutti,un ritorno a casa dopo tanti anni un paese esotico con una guerra in procinto di scoppiare. Mi ha deluso l'approccio di mera cronaca. Confusi dettagli e descrizioni frastagliate, uno dei pochi libri che ho deciso di non terminare di leggere.
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Nei villaggi del Montelibano o della Bekkaa, così come nei quartieri storici di Beirut, ogni cognome narra una lunga storia. Chi è cresciuto in quei luoghi ha imparato, insieme con i giochi dell'infanzia, a leggere nei patronimici il segno di un'affiliazione politica, di un tradimento o di una antica faida clanica. Solo allo straniero le storie e le antiche eredità dei nomi resteranno inaccessibili.
Jabbour Douaihy, finalista al Premio internazionale del romanzo arabo 2008, in Pioggia di giugno fa ricorso ai mezzi della letteratura e dell'immaginazione per raccontare un fatto sanguinoso che per sempre si è inciso nel nome della località in cui ha avuto luogo, Burj al-Hawa, e al quale si farà riferimento come a "il fatto" di Burj al-Hawa. È probabile che dietro a quel bambino della prima scena del romanzo, che un lunedì mattina viene prelevato da scuola e ricondotto in corriera al suo villaggio in lutto da un autista in lacrime, ci sia proprio l'autore, che "nel fatto" fu coinvolto in prima persona quando era in tenera età. "Provengo da una famiglia che ha ucciso e che ha avuto le sue vittime", ha detto infatti Douaihy in un'intervista, quasi a voler spiegare con la circolarità del torto la scelta, operata in Pioggia di giugno, di distribuire ecumenicamente la parola e ottenere così una narrazione a più voci.
Nel villaggio di Barqa, nel giugno del '57, dopo qualche tensione e qualche scoppio di violenza tra fazioni maronite, alcuni membri delle famiglie al-Rami e al-Samaani, sotto una torrenziale pioggia estiva, fanno fuoco durante una funzione religiosa, lasciando a terra decine di morti e feriti. E tuttavia, in questa storia a più voci, "il fatto" finisce per rimanere solo un antefatto, ricacciato sullo sfondo proprio da quei personaggi singolarissimi, melanconici e goffi nel loro ruolo di superstiti, che di volta in volta vengono chiamati in causa per ricordarne le circostanze.
Tra tutti si staglia Kamleh, una donna libera, caustica, vagamente anticlericale. Nel giorno in cui suo marito Yussef morì nella sparatoria, lei era incinta del figlio tanto lungamente atteso e questi, Elia (chiamato così in onore dell'ultimo santo pietito per concepirlo), vivrà senza mai conoscere il padre. Kamleh lo coccola per vent'anni e poi lo costringe all'esilio per motivi misteriosamente legati al "fatto", scegliendo per sé una vita solitaria e metodicamente votata al ricordo. Dopo altri vent'anni Elia ritorna da New York in Libano: vuole scoprire chi era suo padre, come e perché anche lui, che era uno Kfuri, non un al-Rami, non un al-Samaani, venne ucciso in quella domenica di giugno. Madre e figlio si riabbracciano all'aeroporto di Beirut: lei, ormai quasi cieca, si lascia riconoscere dal figlio tenendo in mano una fotografia dello stesso Elia bambino.
È la prima di una lunga serie di fotografie, scattate per fermare un "presente" concreto e sorridente e poi, paradossalmente, destinate a documentare nient'altro che l'assenza. Come le fotografie delle vittime scattate poco prima della sparatoria da Nishan Davidian, il fotografo armeno del villaggio, e conservate nello studio ormai deserto in attesa che qualcuno come Elia arrivi un giorno a reclamarle. Anche Elia scatta fotografie al quartiere, ai ragazzini e a quelli che un tempo avevano frequentato suo padre.
All'amnesia che sembra aver colpito tutti, dopo quella domenica di giugno, Douayhi contrappone una poetica della memoria che è molto spesso memoria visiva. Come se saltassero fuori da un album di fotografie, i narratori si susseguono: Farid, un apprendista sarto votato all'arte della seduzione, Muntaha, la zitella sbarazzina, unica confidente di Kamleh, i ragazzi del quartiere della Compagnia, cresciuti scimmiottando gli adulti della famiglia, dai quali hanno ricevuto anche il primo indottrinamento politico. Incontriamo Mohsen, che "faceva la guerra con pazienza" mirando da dietro la mola del frantoio che gli fungeva da postazione di tiro, o ancora Sami al-Rami, il panettiere che pagò con la vita il proprio stare dalla parte sbagliata della "linea di demarcazione". Ognuno di questi narratori crea il proprio interstizio fra il tempo passato e quello presente, in una moltitudine di soggetti che più che a una galleria fa pensare alla densità di un alveare.
Si tratta di figure talvolta meschine, ostaggi della memoria l'eredità più scomoda ricevuta in cambio della vita che inscenano la propria condizione di superstiti o di stranieri quando qualcuno li mette di fronte al passato. Questo qualcuno dovrebbe essere Elia, sennonché egli fallirà miseramente nella propria ricerca e tornerà a New York gettando nel bidone della spazzatura i panini di kebbeh, il ma`mul di pistacchi e il labneh sott'olio che Kamleh gli ha dato, quasi a volersi sbarazzare del fardello di un'identità ancora da cercare.
Le angolazioni delle storie e i tanti punti di vista finiscono per confondersi tra loro, a tratti interviene una voce esterna a spiegare, in carattere corsivo, il lessico tecnico della battaglia: al-rasas, khatt al-tamas, al-rajul. E allora il distacco ironico diventa presa in giro dei giochi di guerra per soli uomini e lo sguardo nei confronti della pratica della violenza si fa caustico. Riscosso il prezzo del sangue, riletti i trafiletti di giornale e ritagliate le annesse foto in bianco e nero, i grandi misteri resteranno tali, mentre nuove incongruenze emergeranno a complicare il quadro di un fatto di sangue che Samir Kassir (alla cui memoria il romanzo è dedicato) ha letto come una piccola mise en abyme della futura guerra civile. Questo romanzo, nella traduzione coerente e insieme vibrante di Elisabetta Bartuli è dunque, innanzitutto, un lasciapassare prezioso per lo straniero, per il lettore che per la prima volta si avvicina alla terra del Libano e alle sue storie. Alla fine della lettura la curiosità verrà appagata non tanto dall'impossibile cronaca del "fatto", bensì dalle scene evanescenti, cariche della domesticità dell'assenza, del dolore della separazione e anche, a tratti, della leggerezza della morte.
Maria Elena Paniconi
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