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Margherita Guidacci (1921-1992), fu presenza appartata e coerente nella letteratura del nostro ’900. Profondamente religiosa, capace di indagare senza fariseismi il mistero della morte, della grazia e della resurrezione, già da giovane iniziò a interessarsi di poesia. Il suo primo volume, “La sabbia e l’angelo” del ’46, esprimeva una consapevole dipendenza dal versetto biblico, oracolarmente disteso in lunghezza. Ma l’orizzonte della sua poesia non fu limitato esclusivamente alla meditazione religiosa. Molti suoi versi sono dedicati all’amore per il marito e per i tre figli, né le era estranea la corda dell’impegno politico e civile, che manifestò in alcune intense composizioni dedicate alla guerra, allo sfruttamento del proletariato, alla morte di Allende, alla strage della stazione di Bologna del 1980. Della sua poesia, che aveva radici abbarbicate nel terreno ma poi si slanciava verso l’alto con rami e foglie, lei stessa scrisse: «Io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza». Un’istanza etica fortissima animava la sua scrittura, forse proprio per il terso rigore così raramente compresa. Negli anni ’60 la poetessa soffrì di una profonda crisi psicofisica e spirituale, che la portò ad essere ricoverata in una clinica neurologica: da questa dolorosa esperienza nacquero i versi tormentati di “Neurosuite”, in cui le immagini della natura assumono un aspetto deturpato e minaccioso, sullo sfondo angosciante del silenzio di Dio e del mondo circostante. La poesia come ricerca e scavo interiore si è rivelata per Margherita Guidacci anche un fondamentale esercizio di catarsi, di sfrondamento dell’inessenziale per recuperare la parte più vera di sé: «Non ho scelto di essere poeta. Lo sono stata perché tale è la mia natura […]. La poesia non è un atto di volontà, è un atto di vita, e come la vita, contiene in sé motivazione e gioia sufficienti».
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