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C'è anche questo, nel carteggio Caproni-Betocchi: il resoconto di una quotidianità minuta e sovente disagiata ("Passano i giorni, gli anni, e giù articoli per lucro"), che supplisce ai lunghi periodi di lontananza tra i due amici partecipando successi e difficoltà e rivisitando gli sprazzi di vita condivisa. "Una volta facemmo l'albero di Natale insieme. Già. Sono cose che legano per tutta la vita", ricorda Caproni all'amico ancora a anni di distanza dall'avvenimento. Il lungo arco di tempo coperto dall'epistolario offre senz'altro una mole ingente di notizie e ragguagli: vengono chiarite, ad esempio, le diverse fasi redazionali e il sofferto iter di pubblicazione del Passaggio d'Enea, così come vengono seguite passo passo la progettazione e conduzione di programmi radiofonici o la partecipazione a premi letterari, e dettagliati i consigli a vicenda richiesti e accolti su collaborazioni o traduzioni.
Ma in queste circa quattrocento lettere, molte delle quali finora inedite, trascritte e annotate con precisione e competenza dal curatore Daniele Santero, c'è molto di più. C'è la rappresentazione in divenire dell'idea che i due scriventi si vanno formando di se stessi e della propria opera, in relazione alla figura e all'opera del corrispondente e al contesto storico e letterario italiano. È l'emergere di queste relazioni che mi pare costituisca uno dei tratti più interessanti di questo epistolario e apra prospettive decisamente "innovative" dal punto di vista della conoscenza e dell'immagine che la critica ha restituito dei due protagonisti, in genere annoverati tra le figure più appartate del nostro Novecento.
Un primo nodo problematico che le lettere evidenziano e inducono a riconsiderare riguarda dunque a mio avviso il peso effettivo che un'amicizia così intensa e una frequentazione dei testi così assidua può aver esercitato sugli scritti dei due poeti, almeno all'apparenza tanto diversi nelle scelte contenutistiche e formali. In una lettera del '53 Caproni descrive a Betocchi l'entusiasmo per la plaquette Un ponte sulla pianura, da poco pubblicata: "Per ora mi sono permesso soltanto di guardarti di sbieco (una poesia lì, due versi là), felice dei balenii e degli scintillii che a questo modo vo scoprendo, e sempre con un tuffo. La poesia (
) mi piace godermela prima così, spiluccandola (
) Caro Carlo, non val la pena di aver speso un libro perché un nero Caproni vi possa poi trovare 'un po' più di pazienza pel vento di marzo' (
) Io voglio bene alle poesie che posso distogliere tutte a me stesso. Le tue le posso distogliere tutte a mio lucro, mettendo allegramente sotto i piedi ciò che importa a te". È una lettera molto bella che rende al vivo, anche meglio dei diversi articoli che Caproni scrisse sull'argomento, la lettura di tipo simpatetico, appropriativo che dei testi poetici faceva lo scrittore, testimoniata anche da altri passi dell'epistolario: "Sono versi memorabili, che userò spesso (me li dirò spesso) nei momenti di bisogno", scrive ad esempio a Betocchi che gli aveva mandato la lirica Dialoghi di amanti. Betocchi da parte sua, convinto di non saper "parlare che per immagini e per affetti al concreto", ritrova nei versi dell'amico il "rapporto diretto col concreto della vita (
) e l'immagine che ne consegue, cruda e ignuda, purissima, (
) come quella, netta, solitaria, silente del cono o monticolo di terra laboriosamente innalzato dalle formiche creatrici della propria città"; "i miei poveri versi (
) vagolano in cerca di poter dire affetti indicibili, laddove tu con brevi stoccate inchiodi le vicende, le reali vicende di noi poveri uomini". Affermazioni di una così decisa sintonia rendono urgente una verifica incrociata sui testi.
L'attenzione ai valori fonici e musicali della parola poetica è un secondo "punto di incidenza" che le lettere additano a più riprese. Il preludio n. 15 di Chopin è riconosciuto da entrambi i poeti come una sorta di avantesto del Congedo caproniano; Caproni spesso utilizza metafore musicali per descrivere non solo la propria scrittura (il racconto Sotto la luna mediterranea è accostato ad esempio a "un quartetto mozartiano per fiati, compreso il famoso corno di bassetto") ma anche quella di Betocchi, "il Betocchi del concerto italiano": "Qui c'è una musica (la musica buia d'una foresta, corsa da lampi che accecano) che non avevo mai udito nella nostra poesia", gli scrive dopo aver letto le poesie di Un passo, un altro passo. Senza dubbio le poesie dei due scrittori testimoniano non solo una sensibilità profonda verso le figure di suono e le rime, ma anche uno studio attento all'eseguibilità del testo poetico, che Caproni non per nulla amava paragonare a una partitura musicale: proprio negli anni sessanta l'epistolario dà notizia della lettura di alcuni testi caproniani nel corso della trasmissione radiofonica curata da Betocchi. "La mia 'musica concreta' (se esiste veramente) non sarebbe mai esistita senza la tua poesia, sempre così legata alle creature della terra", gli scrive ancora Caproni.
Su queste prospettive aperte si forma e si gioca anche, in parte, la girandola di opere, scrittori e critici citati, esaminati, discussi nel carteggio: il secondo nodo problematico cui vorrei almeno accennare. Le inquietudini del secondo dopoguerra sociali, politiche, letterarie trovano poco spazio in queste lettere, benché toccassero entrambi, e Caproni in special modo. Le ragioni di questo silenzio andranno indagate, cominciando magari dall'avventura redazionale della "Chimera" che, tra il '54 e il '55, impegna Betocchi e il più giovane amico, da lui subito coinvolto, a esporsi e a prendere posizione: prima rispetto al panorama di mode, tendenze e riviste letterarie già esistente; poi, dopo il primo numero, sulla "Chimera" stessa e sul gruppo di poeti che vi collabora. L'idea, fondamentale per entrambi, di una poesia "incarnata", si fa strada e si definisce tutt'altro che in una solitudine appartata e liminale, bensì proprio nel dialogo che le lettere scandiscono e nel confronto con le istanze espresse da altre porzioni della società letteraria. "La letteratura, si capisce, dev'essere sempre il punto d'incontro, il banco di prova. Ma anche la moneta spicciola di certi fatti dovrebbe venir battuta su tale banco. Proprio come lettore (
) io vorrei leggere sul mio giornale anche la nota economica, il commento (
) politico, e tutto questo non per subissare, ma per suffragare la poesia", scrive Giorgio; e Carlo di rimando: "Per me l'uomo morale fiorisce nell'opera che non esiste senza il rigore di questa moralità impegnata (
) Mi pare che per i fiorentini della 'Chimera' questa misura della autenticità non esista più: esista, esigentissima, in un modo diverso". Ancora Giorgio: "Mi piace mescolarmi, compromettermi, peccare. Loro parlano in nome di un assoluto che mi sfugge"; e Carlo: "Non voglio fare un verso / che non abbia patito di persona". Margherita Quaglino
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