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Eduardo è stato naturalmente poeta, anche quando scriveva i suoi testi teatrali, per la capacità di andare al cuore delle ragioni profonde dell’umano, e di dirle con la semplicità di un «classico». Anche questi componimenti che, ritrovati tra le sue carte, vanno ad aggiungersi alla raccolta già apparsa in questa stessa collana, confermano che per lui la poesia non era un’attività secondaria, una vacanza occasionale ai margini dell’opera maggiore, ma qualcosa che nasce dall’interno delle «Cantate» e vi si intreccia. Le poesie sono per Eduardo i fogli di un diario che fissa liberamente un’immagine, un’emozione, una riflessione con la musicalità di una canzone popolare, dalla «preghiera» del 1937, ironica presa di distanza dalla mediocrità vincente dei maneggioni, ai testi degli anni ’60 e ’70, sino a quelli recentissimi del 1983-84. Qui Eduardo lascia talvolta cadere con leggerezza i grani di una sapienza un poco amara, che non cerca mai di imporsi, e che dissimula le sue fulminee verità in un verso in cui, come in tutta la grande arte di questo autore, sono importanti anche le pause, i silenzi, le sospensioni. La vecchiaia è accettata con uno stupore quasi divertito, e persino la morte, per una felicissima invenzione, assume i tratti domestici e concilianti di sant’Anna. Poi ci sono i drammi di certi distacchi, come nelle poesie per la Magnani, per Pasolini, per la sorella Titina. Ma c’è anche l’Eduardo paesaggista che si emoziona per quella ritrovata infanzia del mondo che è la primavera. E c’è soprattutto un uomo che in ogni circostanza sa parlare agli uomini con il suo tono sommesso e fraterno, indimenticabile.
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