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Più che un libro di semplice poesia è un corpus di un bestiario moderno, Marianne Moore è il fisiologo, la genesi di un libro perfetto, l'esempio di come un libro si forma sotto la penna di chi lo scrive. Ma al di là di questo, è anche la riflessione sugli animali, sui rapporti tra gli esseri umani, sull'Occidente, sulla perfezione di una metamorfosi, di una grande mente: il cosmo. Questo volume comprende tutte le poesie accettate dalla Moore stessa ed Adelphi lo salva, se vogliamo, da Rusconi che stava allora per fallire. Credo che più di così i curatori non potessero fare; con due saggi di altre due grandi menti, Eliot ed Auden. Lo ridico: qualsiasi cosa Marianne scrivesse, la scriveva divinamente! Davvero consigliato.
Non sono un appassionato di poesia, ma la Moore mi ha decisamente conquistato. Fu una dei personaggi cardine della letteratura americana e non mi stupisce che metà del mondo se la sia dimenticata ma non la casa editrice Adelphi. Quando ho scoperto la meticolosità e il puntiglio con cui si documentava per scrivere le sue poesie, incredibilmente REALI, mi sono venuti i brividi. Di sicuro non è per tutti, ma per chi riesce a coglierla, è un viaggio nell'infinito.
Marianne Moore è stata lei stessa un'instancabile editore di parole sue o di altri, eppure è rimasta una figura mutevole nella "grande narrativa" del Modernismo, il suo lavoro ci consente di riesaminare le affermazioni del radicalismo artistico, in alla luce di modalità di revisione più complesse. Sebbene possa essersi davvero definita una "radicale" (come suggerisce il titolo di un antico ritratto nascosto in versi), e sia stata rapidamente acclamata come tale dai suoi coetanei, la sua pratica di revisione apre lo spettro delle trasformazioni a modelli più ambigui. . Mentre i suoi esperimenti testuali tradiscono una segreta spinta verso la correzione e la correttezza, il suo armeggiare con le parole evoca il paziente cesello dell'artigiano piuttosto che il colpo di genio, o la fantasiosa errata dell'evoluzione naturale sulla catastrofe storica. Oscillando tra abbondanti note di lavoro e pubblicazioni notoriamente troncate, tra esaustività e silenzio, tra inizi infiniti e l'orizzonte sempre più sfuggente del completamento, il corpus instabile di Moore contribuisce così alla ridefinizione della rivoluzione creativa. Davvero geniale.
Recensioni
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recensione di Rognoni, F., L'Indice 1991, n.10
"La cosa più nobile che spirito umano possa fare a questo mondo è vedere qualcosa, e dire in modo diretto quello che ha visto. Ci sono centinaia di persone che sanno parlare per una sola che sa pensare; ma migliaia sanno pensare per una che sa vedere. Vedere chiaramente è al contempo poesia, profezia e religione". Trascrivendo in un taccuino questo passo da "Modern Painters" di John Ruskin, Marianne Moore (1887-1972) dichiarava una poetica cui sarebbe stata sempre fedele. E se non sempre il 'modo diretto' è semplice, questo è perché l'esistenza è così complessa e intessuta di segrete corrispondenze che anche un lessico ricchissimo come quello inglese non può renderle giustizia senza ricorrere a mille altre parole composte e agli specchi della metafora. La sua più illustre discepola, Elizabeth Bishop, non era iperbolica quando affermava che "per quanto io ne sappia, Marianne Moore è la più grande osservatrice vivente": le sue stupefacenti notazioni, a prima vista stravaganti, poi subito esattissime, non sono quasi mai pezzi di bravura, ma disinteressati omaggi alla realtà.
V'è da essere grati alla Adelphi per la riproposta di questa egregia traduzione integrale di "The Complete Poems" ( 1967), già uscita in due volumi presso Rusconi (1972-74). Negli ultimi anni la poesia della Moore era rappresentata in Italia solo dalla parca scelta "Unicorni di terra e di mare" (Bur, 1981), un libretto che a sua volta ristampa (corrette) alcune versioni di Giovanni Galtieri (Guanda, 1962) e che, grazie all'inclusione di un celebre saggio di Randall Jarrell e alla splendida introduzione di Marcello Pagnini, conserva ancora tutto il suo valore (e varrà segnalare anche due belle versioni di Attilio Bertolucci ora nel suo "Le poesie", Garzanti 1990). La traduzione di Lina Angioletti e Gilberto Forti è per adesso definitiva. È tuttavia probabile che in un prossimo futuro il corpus mooriano assuma una assai diversa configurazione. Intanto, "The Complete Poems" non è affatto una raccolta completa. È vero che, come segnala la stessa Moore con un'astuta epigrafe, "le omissioni non sono accidentali"; però sono per lo meno capricciose, talvolta inspiegabili: è mai possibile che "Old Tiger", con quel suo lapidario, autobiografico finale ("tu / sai che non è necessario vivere per essere / vivi"), appaia solo in un paio di riviste americane, e nell'"Omaggio a Marianne Moore" di Scheiwiller (Milano 1964)?
Ma il peccato maggiore non consiste tanto nell'esclusione di certe liriche quanto nello stato di molti dei testi inclusi, pesantemente riveduti rispetto alla versione originaria. La Moore è in quella vasta compagnia d'artisti (Wordsworth ne è forse il membro più illustre) che raggiungono la maturità ben prima della fama (quasi tutti i suoi capolavori sono già nelle "Selected Poems" del 1935), e poi farebbero meglio a lasciar stare le opere della giovinezza, scrivere altro o semplicemente godersi la celebrità (e negli ultimi vent'anni, col suo visetto vispo e grinzoso, occhieggiante dall'immancabile cappello a tricorno nero come dal guscio d'una tartaruga, Marianne Moore fu una celebrità nazionale, intervistata da "Life", in copertina di "Esquire", 'mascotte' della squadra di baseball dei Dodgers, consultata dalla Ford per il nome d'un'auto...). Le variante di cui l'autrice stessa non era mai del tutto convinta, tendono quasi sempre alla semplificazione, spesso consistendo in tagli impietosi (è solo grazie a un rispettoso suggerimento del poeta inglese Charles Tomlinson che lo straordinario catalogo di fiori di "L'uomo del campanile" [1932] ritorna ampliato, nell'attuale versione, dopo essere stato espunto da quella del 1951). Il coso più eclatante (e, per la verità, anomalo) è quello del suo pezzo forse più famoso, "La poesia", di cui restano cinque diverse versioni a stampa. Il nostro volume ne riporta due, la più breve (di 3 versi) nel testo, la più lunga (di 29) relegata nelle note dalla stessa Moore. "La poesia": "Neanche a me piace. / A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, / dopo tutto, uno spazio per l'autentico". Versi arguti, incisivi, probabilmente veritieri; ma come leggerli con totale disprezzo? Neanche "il critico impassibile che arriccia la pelle come un cavallo che senta una pulce" (cito dalla versione lunga) ne sarebbe capace!
Quasi tutte le poesie degli ultimi volumi (quelle scritte dagli anni quaranta in poi) aprono 'spazi per l'autentico', ma ben poche si azzardano poi ad esplorarli con la caparbia di "II matrimonio", "Un octopus", "11 gerboa", "Il basilisco piumato", "L'uomo del campanile", o della stessa versione lunga di "La poesia", dove s'afferma che "mai potremo avere poesia / se i poeti tra noi non diventano / 'letteralisti dell'immaginazione' - superiori / all'insolenza e alla volgarità, disposti a sottoporre // a ispezione 'giardini immaginari con rospi veri dentro"'. Di questi versi famosi (e ufficialmente banditi) può forse spiacere la quasi sdegnosa, sicurissima programmaticità - ma solo se non vi si coglie il timbro autenticamente profetico, n‚ si avverte la millenaristica tensione di chi sta per attingere a quel potere di nominazione "che Adamo possedeva e di cui noi siamo "ancora" privi" ("Un octopus", corsivo mio). E l'ultima immagine è solo bizzarra finché non viene in mente che, nei giardini immaginari, i rospi veri si trasformano in principi...
Sarebbe sciocco e volgare suggerire che l'involuzione della sua poesia, che diviene sempre più esclusivamente nostalgica e idiosincretica, sia dovuta all'assenza nella sua vita, di qualsiasi 'principe'. Ma certo un vuoto d'esperienza (d'ogni esperienza, non solo d'esperienza sentimentale) si schiude fra il graffiante sarcasmo dell'esordiente che ha "visto l'ambizione / priva di intelligenza in una vasta varietà di forme", e l'ostentata 'na'veté' dell'anziana poetessa che si turba al solo nome di Whitman. Eppure Whitman presiede a molti capolavori degli anni venti: a tante velate descrizioni di New York e di Brooklyn, come a quella poesia assolutamente unica che è "Una tomba", maestosa visione di un oceano implacabile e risolutamente non umano, dove "ogni cosa caduta e condannata ad affondare -/ in cui, se mai si volta e si contorce, non è per volontà n‚ con coscienza". E whitmaniani sono, nella loro ambizione di "rivaleggiare / col serraglio di stili della prima America", "Il matrimonio" e "Un octopus", i suoi due pezzi più lunghi, concepiti come un'unica poesia e restano accomunati dall'appassionata ma insostenibile percezione di una bellezza la cui "stessa esistenza è soverchiante; / e ti riduce in pezzi, / e ogni fresca ondata di coscienza / è veleno".
Iniziate nel 1923, dopo una visita a Seattle, capitale dello stato di Washington, dominata dall'imponente monte Rainer (di cui "Un octopus" è una descrizione di "relentless accuracy", inesorabile perfezione), queste due poesie sarebbero impensabili senza l'esempio di Eliot. È alla sua influenza che si devono il temporaneo abbandono del verso sillabico in favore del verso libero, e il fittissimo intarsio di citazioni (corredate da un apparato di note, spesso tranquillamente imprecise). Ma se nella "Terra desolata" (1922) le schegge delle opere del passato sono un sintomo del disfacimento della cultura occidentale, e quindi un precario tentativo di puntellare di frammenti le rovine della storia e della psiche, il caleidoscopio della Moore è celebrativo. Il ricorso alle citazioni (raramente da libri che appartengono alla sua tradizione letteraria: quasi sempre da testi scientifici e giornalistici, o da commenti alle Scritture) è sì una strategia difensiva, ma soprattutto un atto di umiltà, un riconoscimento dell'incontenibile ricchezza del reale e della necessità di moltiplicare le prospettive per ottenerne una visione che resta sempre solo parziale. Dalla "Terra desolata" si levano lamenti; "Un octopus" è un tripudio di voci.
Si vorrebbe tornare, per un'ultima considerazione, al tormentato processo delle varianti. Le interminabili revisioni di un poeta come Robert Lowell sono subito comprensibili: la sua poesia è scritta così a ridosso della vita vissuta da restare inevitabilmente in stato di perenne fluidità. Dell'arte della Moore si direbbe il contrario: raramente si preoccupa del 'tempo' (anche "Che cosa sono gli anni?" parla di eternità); le sue parole chiave sono 'resistenza', 'costanza', 'fermezza', 'saldezza', 'rigore'; gli animali che descrive quasi sempre corazzati. Per risolvere questa apparente contraddizione, in aiuto viene Wallace Stevens che, a proposito di "Digerisce durissimo ferro", afferma che la poesia - di primo acchito una descrizione storico-naturalistica dello struzzo - "illustra la conquista di una realtà individuale" ("L'angelo necessario", Coliseum, 1988, p. 176). Se nella memoria gli animali della Moore tendono ad assumere l'invulnerabilità dell'emblema, sulla pagina la loro vita è precaria, costantemente minacciata: i suoi animali (e i suoi 'concetti') combattono per una sopravvivenza che non è data, ma va conquistata. Spesso è solo alla fine di una poesia che ci si avvede di aver letto non una barocca descrizione, ma un testo sottilmente drammatico, vuoi che si celebri lo scoglio, che "può vivere / di ciò che non potrà resuscitare / la sua giovinezza. E dentro ad esso si fa vecchio il mare", o la temporanea salvezza delle procellarie che vincono "l'esausto / momento del pericolo che getta sul cuore e sui polmoni / il peso del pitone che stritola in polvere".
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