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recensione di Pent, S., L'Indice 1995, n.10
Immaginatevi lo standard pirandelliano del personaggio in cerca d'autore bardato da pony express che percorre sul suo motoscooter la Milano da bere degli anni ottanta. Immaginatevi il cappotto di Gogol' furtivamente a spasso lungo le strade sguisciose per la grande nevicata dell'inverno 1984-85. Aggiungete un malcelato "omaggio" a Paul Auster, uno dei più geniali narratori contemporanei (il gioco di coincidenze ed equivoci attraverso i quali il protagonista si trova invischiato nella ragnatela degli eventi ricorda assai da vicino i primi capitoli di "Città di vetro"). Concludete con un'energica spolverata di giallo intenso - droga, morte per overdose, caccia all'uomo, vendette - e avrete tra le mani il primo, denso e veloce romanzo di Giampaolo Spinato. Moderno quanto basta per frenesia narrativa e nervoso linguaggio sottobraccio ai tempi, antico al punto da scappellarsi a destra e a manca in omaggi letterari d'alto bordo, peraltro implicitamente riconosciuti dall'autore.
La storia nasce inquieta, tra incertezze dl gioventù disoccupata e aneliti di fama teatrale presto gambizzati dalla malasorte. L'io narrante si trova temporaneamente esule in casa d'altri, dove una registrazione e un'anonima telefonata lo mettono casualmente in contatto col mondo concitato e selvaggio dei pony express, le frecce metropolitane che fanno la barba al traffico per sveltire la frenesia dei contatti d'affari delle grandi città. Ma si sente osservato e braccato, specie dopo aver accettato la scommessa di fingersi il fantomatico "Delta Uno" dell'oscura tribù di messaggeri motorizzati. Le nevrosi iniziali da disoccupazione esistenziale che lo avevano spinto a catalogare oggetti, animali, fantasie, in un perverso gioco autodistruttivo, lasciano gradualmente il posto all'indagine psicologica che lo porta ai confini di una Milano acciaccata dalla neve e dal gelo. L'incontro con un personaggio che di nome fa Giampaolo Spinato - in codice Pin per nascondersi ai bracconieri di morte - calamita il protagonista in una baraccopoli di periferia dove scoprirà le nefandezze drogate che hanno sviato le indagini dei malavitosi su di lui, ignaro cicalino per la trappola finale.
Il tutto si risolve con l'arresto dei "cattivi", il ritorno del disastrato Spinato-Pin alla realtà, l'impressione che il gioco fin qui condotto si sia retto sull'equilibrio delle intenzioni. Se è vero, infatti, che l'esordio esistenzial-kafkiano con spruzzate di minimalismo suburbano aveva preventivato mosse narrative più metafisiche, è altresì evidente che il meccanismo giallo finale - seppur ben condotto - riduce il tono del racconto a livelli dl cronaca nera, lasciando irrisolti i patemi esistenziali del protagonista.
Potremmo dire che Spinato - l'autore, non l'alter ego in prestito d'uso alla vicenda - ha messo alla prova almeno tre variabili di un possibile percorso narrativo: il romanzo generazionale in tonalità rock, la rivisitazione pirandelliana delle identità contraffatte aggiornata a Paul Auster, il filone giallo che - almeno in tempi recenti - tenta non pochi narratori italiani alla ricerca di un profilo riconoscibile.
Nell'insieme è comunque un cocktail riuscito, questo tentativo tardo-goliardico di nero metropolitano, salvo la leggera impasse finale, proprio dove avremmo gradito l'impennata vincente: la soluzione appare eccessivamente esplicativa, laddove una sfumatura più sfuggente avrebbe dato maggior lustro, oltreché alle ipotesi fin qui raccolte, alla convinzione che la realtà sia una definizione soggettiva che non necessita di troppe spiegazioni. Dev'essere semmai il lettore ad accettare di adeguarsi alla realtà allucinata di Spinato, non viceversa.
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