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recensione di La Rocca, C., L'Indice 1987, n. 5
La "distruzione" della storia della metafisica occidentale intrapresa da Heidegger fin dai primi corsi universitari di Marburgo (dal 1923 al 1928) era stata un tentativo di sciogliere e rimettere in movimento un linguaggio concettuale divenuto rigido ed inadatto al compito di pensare le "cose stesse". Lungo tutto il percorso non privo di peripezie del pensiero heideggeriano questa lettura "rifluidificante" del linguaggio e del pensiero dell'occidente non viene mai interrotta, generando, tramite "distruzione", una complessa e grandiosa ricostruzione della tradizione filosofica. Il disegno che è emerso da questa operazione, inscindibile dal cammino teorico di Heidegger, ha finito per determinare un'immagine anch'essa irrigidita di alcuni momenti e figure concettuali che occupano posizioni chiave nella storia della metafisica. Il primo "gesto" teorico di questo libro di Rovatti è la riproblematizzazione di una delle immagini cristallizzate che paradossalmente si sono andate formando attraverso la rifluidificazione heideggeriana del pensiero metafisico: l'immagine del cogito cartesiano, la figura fondamentale e fondante del soggettivismo moderno, cardine filosofico della modernità. In Descartes prenderebbe forma, secondo Heidegger, quel soggetto-padrone fondato nella certezza di sé, attivo "produttore" di ciò che gli sta davanti e viene ridotto ad oggetto, una figura che starebbe alla base della scienza-tecnica e della metafisica moderna.
Il cogito è il primo nodo che Rovatti incontra muovendo da un'ipotesi di fondo: "che la scena del pensiero contemporaneo sia abitata da due grandi protagonisti: Edmund Husserl e Martin Heidegger" (p. 7). Se, come aggiunge Rovatti, "è essenzialmente attraverso i loro pensieri che noi continuiamo a pensare i nostri problemi fondamentali", allora la ridefinizione degli incroci possibili tra questi pensieri non ci restituirà solo una storia, talvolta infelice, di reciproci fraintendimenti (tra Husserl e il suo allievo Heidegger si consumò nel 1927 la rottura, nel tentativo di redazione in comune della voce Fenomenologia per l'Enciclopedia Britannica), ma potrà anche aiutare ad identificare alcuni nodi decisivi della problematica contemporanea, ed, in essa, una "posta in gioco".
Il cogito cartesiano è una figura storica sulla quale le valutazioni di Husserl e di Heidegger divergono significativamente (per Husserl, un inizio inconsapevole e subito tradito; per Heidegger, un pregiudizio fatale e quasi ineluttabile); ma è anche soprattutto un "luogo" teorico, proprio nel senso di qualcosa nei cui confronti si definisce e si orienta un cammino. Husserl muove i suoi passi in direzione della concretizzazione del soggetto cartesiano: attraverso il metodo della "riduzione fenomenologica" (che Husserl vedeva adombrata nel "dubbio" di Descartes, e di cui Rovatti sottolinea la funzione di opposizione ad ogni cosalizzazione della soggettività) il soggetto si rivela essere non un fuoco dominante ma "un orizzonte complesso e sconfinatamente aperto" (p. 24), "non tagliato gerarchicamente" in favore delle funzioni attive e riflessive, ma nel quale viene in luce il ruolo preponderante delle "sintesi passive". Al di là delle ossessioni husserliane di rigore assoluto, l'epoché (la "sospensione di giudizio" che deve aprire la via al cuore del soggetto) si rivela come un rischioso viaggio nella dimensione paradossale di un "trascendentale concreto". Un percorso più vicino a quello di Heidegger di quanto si sia pensato, e di quanto gli stessi Husserl e Heidegger abbiano mai avvertito.
Heidegger rifiuta il viaggio nel cogito perché individua la dimensione oscura e da riattraversare del cogito ergo sum nel sum, nel senso dell'essere della soggettività che in quella formula cercava di fondarsi. Lo spostamento d'accento dall' "io penso" all'essere dell' "io sono", se riscopre e rimette in movimento la problematica della metafisica classica attraverso il suo "impensato", abbandona però, secondo Rovatti, quel percorso a rischio nel "noi lo siamo", ossia nella dimensione ineludibilmente nostra da cui lo stesso senso dell'essere non può essere scisso (p. 39). Rovatti vede nella centralità che (in positivo o in negativo) il cogito assume in Husserl e Heidegger l'indice di una questione ancora elusa: quella di un soggetto che non sia subjectum, che non muova cioè dal pregiudizio di conoscere la propria identità, ma "anzi pone la propria identità come il problema più grande" (p. 37). Cosa è l'io, o meglio: cosa siamo noi, se non "soggetti" come identità presupposte? Riproporre questa domanda dopo Husserl e Heidegger è anche ritrovare di nuovo la traccia di Descartes, ripercorrere altre "peripezie" del cogito. Foncault, Derrida, Lévinas, Lacan, riflettono "intorno" al cogito in una fase (l'inizio degli anni '60) "antifenomenologica", che segue a quella caratterizzata da Sartre, Merleau-Ponty, dal Ricoeur fenomenologo (p. 40). Emergono altri impensati: la follia, come "buio" che definisce la luce; il dubbio, come gesto iperbolico intrinseco alla filosofia (Derrida); la meditazione, come esercizio di modificazione di un soggetto esposto al rischio (Foucault) l'idea di dio (trascurata da Husserl a Heidegger fino a Derrida), che diventa in Lévinas la spia dell'anteriorità dell'infinito: dio è un'idea in noi su cui noi non abbiamo potere, perché allude all'"altro" che rende possibile il soggetto, un "al di qua" della soggettività che abita il soggetto stesso (p. 51). È quell'Altro riconosciuto in altre forme, ma anche muovendo da Descartes, da Jacques Lacan (pp. 54-55).
Tra questi autori è Lévinas ad avere il ruolo più importante nella riflessione di Rovatti e nella sua riproposta della domanda sul soggetto. Il "chi?" così rilanciato risuona perciò inizialmente in forma lévinasiana: chi è il soggetto che si lascia avvicinare dalla metafora della "passività"? La seconda parte del libro (Il soggetto in questione, pp. 61-102) cerca, più che di rispondere a questa domanda, di creare lo spazio per essa. Non è un caso perciò che, prima della "passività" come metafora per il soggetto, vengano riattraversate altre metafore che non si riferiscono in prima linea al soggetto, ma ad orizzonti di senso ulteriori. La domanda sul soggetto - sembra risultare da queste pagine - può essere posta solo muovendo da un "altrove" che determina la logica della questione dell'identità. Dal "nascondersi" del fenomeno, per esempio, quel particolare modo di darsi della verità che Heidegger analizza, ma che già il "travaglio" e lo "scacco" della ricerca husserliana della soggettività lasciavano avvertire (p. 689). Heidegger radicalizza il percorso fenomenologico di Husserl, indietreggiando però anche per certi versi su di esso, secondo Rovatti, o accorciandolo arbitrariamente. Altre figure che Rovatti attraversa sono la "radura" (Lichtung) del tardo Heidegger, o lo "scompiglio" di Lévinas. Ma anche ripensando l'epoché, "ridotta semplicisticamente ad un'immagine povera" (p. 76), Rovatti mostra le convergenze divergenti, come si sarebbe tentati di definirle, tra Heidegger e Husserl, tra epoché e "ascolto", "apertura" del soggetto e storicità, nella loro straordinaria ricchezza e complessità.
Questa complessità assume una forma peculiare in Lévinas. Pur prendendo le distanze dall'"etica positiva dell'alterità" di Lévinas, vista come raddoppiamento non necessario del rivolgimento etico "che si attua nell'esercizio stesso, nel movimento di polarizzazione verso la 'passività', nella concreta erosione dell'identità dell'io come apertura" (p. 95), Rovatti vede nella sua metafora della passività e nelle analisi ad essa connesse di una soggettività "depotenziata", aperta all'altro ed alla "vita" preriflessiva, una via che consente di trarre profitto dall'Heidegger di "Essere e tempo" riprendendo però il percorso di Husserl ed alcune sue ambigue intuizioni: del concetto di Erlebnis al problema dell'altro nella fondazione intersoggettiva.
La passività è una metafora, puntualizza Rovatti, che in realtà deve portare al di là dei sensi comuni di "attività" e "passività". Come metafore vanno lette anche quelle parole ("scompiglio", "radura", "risveglio", e l'intera inesauribile serie delle variazioni sulla luminosità, fino alla "luce nera" di Derrida) che tentano di dare un nome alla dimensione in cui la domanda sul soggetto può aver luogo, o alla soggettività stessa. Il modo di dire metaforico, prima che il dire delle singole metafore, si rivela solidale con la soggettività: ma solo nella misura in cui la metafora ha "il suo analogo", il proprio correlato nella struttura pre-narrativa dell'esperienza" (p. 102), ossia solo in quanto il linguaggio metaforico riesce ad essere funzione di un racconto che non è "rendiconto"-solo se portare il soggetto alla temporalità raccontata dal linguaggio non è tradire l'altra temporalità del "senso" soggettivo cui ci si vuole approssimare. Attraversando nell'ultimo capitolo il racconto di Blanchot "La follia del giorno" la domanda- il "chi?" - di Rovatti giunge quasi ad una svolta: qual è il linguaggio che permette di dire il senso della soggettività?
L'apertura finale sul linguaggio come metafora e racconto è tra i motivi non secondari di interesse di "La posta in gioco", insieme ai tanti che emergono dalla decisa rinnovata problematizzazione di tematiche non facilmente accantonabili. Questa apertura, che sembra allontanare ancora una volta dal soggetto verso un "altrove", lascia scorgere in realtà il territorio per un nuovo avvicinamento al "senso" del soggetto. In esso possono trovare spazio, con quello di Rovatti, altri percorsi sui quali la domanda "chi?" può rimettersi in cammino.
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