La produzione poetica e narrativa degli immigrati che vivono nel nostro paese e scrivono in lingua italiana, quella che uno dei suoi massimi studiosi, Raffaele Taddeo, ha definito in un suo saggio fondamentale per la comprensione di questo fenomeno "letteratura nascente", almeno nella sua punta dell'iceberg, conta ormai autori di riconosciuta calibratura stilistica e penetrazione tra il pubblico più attento e sensibile dei lettori. Si pensi a scrittori come Carmine Abate, sicuramente il maggiore, tradotto in tutto il mondo, uno dei narratori più popolari e amati nel nostro paese, e poi Ornela Vorpsi, Gabriella Kuruvilla, Jarmila Ockajová, Adrian Bravi, Tahar Lamri, giusto per fare alcuni nomi. Tra questi anche il poeta senegalese Cheikh Tidiane Gaye, che ha pubblicato raccolte di versi anche per la casa editrice di frontiera Edizioni dell'Arco di Milano, specializzata nelle letterature del Sud del mondo, con una distribuzione particolarissima ma di rara efficacia, cioè la vendita solidale per strada, nelle spiagge, porta a porta, fatta dai connazionali degli autori pubblicati, che legano la diffusione delle culture di origine alla propria sopravvivenza quotidiana, una sintesi a dir poco eccentrica e interessante. Impegnato da sempre anche socialmente, nemico giurato dei razzisti della Lega Nord, Gaye è stato pure candidato nella lista per Giuliano Pisapia Sindaco, il quale firma la convinta prefazione al suo nuovo libro Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera, una sorta di autobiografia narrativa, che non è solo quella dell'autore ma di un popolo, di una nazione e, più in generale, legata all'identità profonda di chi emigra dall'Africa e trasporta altrove la sua "diversità". La caratteristica del libro, una narrazione epistolare, l'escamotage di una serie di lettere spedite all'amico immaginario Silmakha, è di essere volutamente ingenuo e dialettico nella rappresentazione della vita quotidiana e dei pensieri di un bancario senegalese (l'io narrante, ma anche l'autore) a Milano, catapultato in un mondo (linguistico, culturale, economico) in cui si sente straniero, nel senso appunto di estraneo. La forma del racconto, quella classica della confessione, del referto esistenziale e del giornale intimo, ma con una lingua lirica, la prosa di un poeta fatta di digressioni e di salti temporali tra l'oggi e lo ieri, alla fine si configura anche come un piccolo romanzo di formazione dove il narratore-autore, qui chiamato nella finzione Souleymane, riversa anche le esperienze e gli incontri fondamentali della sua vita precedente. Dai precetti della vita familiare ai paesaggi delle radici, dagli aforismi sapienziali del nonno, tutti della tradizione orale, il racconto si svela tra nostalgia del passato e la difficile condizione del presente, e la vita diventa una vita in bilico in quella "terra di nessuno" che è il luogo abitato da ogni migrante di sempre. Non mancano, infatti, nei passaggi dove l'autore descrive il nostro paese con il suo impietoso "sguardo straniero", frasi come questa: "Così sentivo dire dagli amici di Brescia che vivono nella residenza Prealpino, roccaforte dei senegalesi. Sfruttati come bestie da soma, per pochi euro all'ora, senza alcuna possibilità di scelta"; oppure si concede delle invettive squisitamente politiche: "L'Occidente, schiavista e colonizzatore, ha partorito la diseguaglianza, le barbarie e ha trionfato immoralmente, giustificando le sue esplorazioni. Che cosa facciamo degli schiavisti? Che cosa facciamo dell'Europa capitalista?". Chi chiede asilo, cittadino lo diventa davvero solo quando può conservare la sua identità, la sua storia, perché ha già perso troppo: "Chiederò all'Occidente di prendersi tutto, ma di lasciarmi la mia pelle nera, il cui colore rappresenta la mia essenza. Sono orgoglioso di essere nero e voglio vivere, perché la mia vita è una sola", scrive l'autore, che ha affabulato Mater Luther King e Malcom X, ed è epigono degli scrittori Aimé Césaire, Leroy Jones e Wole Soyinka. Il libro si chiude con un ultimo, struggente messaggio epistolare, una lettera-testamento spedita al figlio "mulatto", nato in Italia da un matrimonio misto, figlio di un mondo nuovo e di una speranza: "Sei nato nel Mediterraneo, molto dopo la caduta del muro di Berlino, non in Africa, terra di tuo padre. Non sei stato iniziato alla circoncisione, non vivrai nella foresta come ho fatto io (
) Avrai il respiro dell'umanità fra le tue mani. (
) Porti sulle tue spalle i secoli bui dei neri d'America, di Santo Domingo, della Guyana, porti la sofferenza dei popoli diseredati e derisi, hai con te una macchia indelebile, il peso della storia è impresso sul tuo cammino". Il libro di Cheikh Tidiane Gaye, sempre calibrato su due binari paralleli, quello della denuncia franca, diretta, a volte rabbiosa, e quello della speranza e dell'amore universale tra gli individui, ci ammonisce infine con un insegnamento che sta tutto in una semplice frase lapidaria: "La grandezza di un popolo si misura nel suo modo di trattare gli ospiti". Angelo Ferracuti
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