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L'edizione italiana accentua fin dal bebè in copertina l'intimità di questi Schizzi berlinesi di fine millennio, mettendo in primo piano la stupita e commossa paternità di uno dei più giovani e affermati poeti tedeschi contemporanei. E fa tenerezza ritrovare un padre in quel ragazzo vigile e curioso che, una decina di anni or sono, incontrava gli studenti torinesi. Ora lo vediamo affaccendarsi attorno alla figlioletta e osservare con ingegneristica precisione le fasi dell'allattamento, e scrivere versi (mediocri) alla neonata principessa : "Tu sei il centro, è di te che si tratta: grammi / duemilacinquecento". Ma non è tanto l'aspetto domestico a interessare, anzi ci si annoia a leggere che "un neonato modifica la realtà che lo circonda", che "non vi sarà più una giornata che non sia messa all'aria dalle sue grida" e via discorrendo. Sono invece le riflessioni sulla poesia, sul rapporto tra l'Io e la storia che giustificano la traduzione, assai ben condotta da Stelzer, di questi frammenti sparpagliati lungo l'ultimo anno del Novecento.
Poeta equipaggiato fin dai tempi del liceo di Dresda da una robusta cultura classica, Grünbein non cade mai nell'erudizione fine a se stessa, sia che citi autori greci e latini, sia che dialoghi con Shakespeare e Baudelaire o passeggi con Freud tra le rovine di una Pompei nella calura di agosto. Si coglie in queste pagine di scrittura analogica e ramificata il rovello che sostiene il lungo poema Vom Schnee oder Descartes in Deutschland (Della neve, ovvero Cartesio in Germania, Suhrkamp, 2003). Le domande sui fondamenti della scienza, sull'empirismo e l'osservazione: ecco il passo semantico che regola le digressioni del poeta. Sarcastico sulla cultura dei talkshow, ormai "annidata nei corpi dei telespettatori" grazie alla "costante medializzazione di ogni casa e famiglia", Grünbein guarda sconsolato all' homo sapiens correctus - >e cablato. Il quale, privo di ogni ars amatoria, appare oggi preda sia della fangosa porcilaia pornografica come della "lieta isteria del progresso" dilagante dalle emittenti televisive.
C'è poi il passato tedesco. Nel parco, la notte, affiorano fantasmi di soldati, resti di una disperata gioventù hitleriana "alla ricerca del perduto capo branco". Resta in Grünbein un lutto infantile, l'immagine di una Germania divisa, direi anzi che col passar del tempo si riaprono vecchie cicatrici. Il paese rimane spaccato nella memoria dei suoi abitanti. "L'uno ha ancora davanti agli occhi gli stupratori nelle uniformi dell'Armata Rossa, mentre l'altro ricorda grato il primo gi con la gomma in bocca". E ora? Cosa viene dopo il crollo di Mosca, dopo la caduta di quel "miserabile sistema di schiavismo industriale statale"? Oggi l'occidente "allunga verso est le vergognose, abili ventose dei suoi tentacoli in cerca di futuri mercati". Non conta il successo, il poeta si sente collocato tra i rottami del mondo, recluso ancor prima di nascere nella trappola di Ulbricht: il muro di Berlino. Ancora brucia il senso d'impotenza, il ricordo del filo spinato, dell'umiliante "costrizione [comunista] alla felicità". E il rimpianto per il padre, un ingegnere aeronautico sacrificato a Est dalla miopia dell'apparato e poi licenziato assieme ad alcune altre migliaia di dipendenti dopo il 1990, "molto prima dell'età pensionabile".
L'occhio sul presente coglie una Berlino simile a un cortile da caserma, il selciato segnato da cicatrici è ricoperto di un cemento percorso da bande di giovani barbari che "col capo rasato e la bandiera del Reich" si azzuffano sbronzi, liberi e impuniti. Ma non c'è rimpianto alcuno per l'ordine del cielo diviso. Piuttosto una mestizia di fondo al pensiero di quella "penosa euforia messa in mostra nel 1989 dalle masse esultanti davanti alle telecamere". Perché restano vuote quelle mani che avevano cercato "di afferrare la libertà", mentre l'attimo storico sbiadisce nella memoria di remoti progetti di fuga.
Solo in dicembre, sepolto nella neve, il paesaggio tedesco sembra avvolgersi nel silenzio ignorando la "via crucis" della storia, come in sogno.
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