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Lo statuto editoriale del “fuoricollana” ben si attaglia ai versi di Daniele Filzi: un autore giovane senza stemmi d’appartenenza, che dalle paternità poetiche della tradizione, così rimasticate e assimilate, amate tanto saggiamente da tenere lontana la tentazione dell’imitare, nasce già con la sua voce. Una voce personalissima modulata quasi per compensazione, in una poesia che parla, o zittisce, in una prima persona di rimando, giusto indicata, copia dell’originale (“Mi spiace / Mi somiglia / Tace”) e spesso traslata in versione meccanica: corpi preservati dalla “trama drummata” della “fibra di vetro”, gesti d’amore come “ingranaggi di ferrocarezza”. Gli scatti del marchingegno singultano tutti soltanto “nel presso”, in un fuori giurisdizione dai confini incerti quanto invalicabili, regolati da una lancetta temporale anch’essa a funzionamento parcellare, a “disco orario”. Anche l’amorosissima immunità sentimentale, tutta carezze in latenze e abbracci di recinzione, “acconsente” a un femminile, la Mantide-Musa della sezione centrale, soltanto entro l’orlo millimetrico tra il non ancora e il non più. In questa poetica della costrizione come protezione l’agire, per dovere di esistenza, non sarà il compiuto “fare” ma il “tentare dico un’altra via”, prova inesausta dell’almeno allargare ogni guaina. La poesia destinata a durare, parafrasando Zanzotto, non è comunicazione ma infezione: al contagio di questi versi si dovrà cedere. Raffaella Scarpa è professore a contratto di lingua italiana all’Università di Torino
La raccolta di Filzi coglie alla sprovvista: rinuncia all'idea che i versi siano destinati ad un pubblico ristretto.Questo è un libro che riavvicina alla poesia.
Promesse Da Marinaio è una raccolta che vive nel «fuori tempo», marginandosi accuratamente in quello spazio del “limite” che in poesia, da vincolo, si fa “prigionia celeste” ed unico vero luogo in cui ha casa la parola. In questo «dove» a misura di bordo l’esatto equilibrio tra «cattività» e tentazione si esprime perfettamente in un “fare” bloccato nell’«elogio della stasi», o in movimenti di pura teoria, o in tentativi tarati a gradi diversi di negazione: fermi sulla soglia dubbiosa del «come, oppure come», accennati e immediatamente dispersi nella «volontà-vapore», appena proseguiti per supposizione da esperimento, da laboratorio. In questo “campo sterile” (tra «piresi» e «glaciazioni») di «attrezzi da chirurgo», «incastri di meccano» e «chimiche reazioni», in cui anche l’amore non è più che forma dolcemente futuribile dunque sempre straziatamente preliminare, il «quanto è poco» concesso è la vita piena della parola poetica, di una lingua rifondata dai tratti minimi al metro. Se la scrittura in versi è “verità della verità” perché unica forma di menzogna accreditata, poche cose come le “promesse da marinaio” si avvicinano all’idea stessa di poesia.
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