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recensione di Argentieri, S., L'Indice 1992, n. 5
L'autrice fa parte di quella piccola schiera di storici anglosassoni (come Peter Gay o Phillys Grosskurt) che da qualche tempo si cimentano con la materia psicoanalitica, mettendo al suo servizio i loro strumenti ordinatori e metodologici, ma che poi finiscono col farsi sedurre dall'oggetto stesso della loro indagine. Judith M. Hughes, docente di storia dell'università di California, ha voluto affrontare le vicende teorico cliniche di tre grandi protagonisti di quella che impropriamente si usa chiamare "scuola inglese", in realtà, un luogo geografico di aggregazione che, a partire dall'esilio londinese di Sigmund Freud, divenne il centro di convergenza dei suoi migliori allievi di ogni nazionalità e da cui poi nacquero tanti originali filoni di pensiero - irriducibili ad una sola singola scuola - che hanno improntato lo sviluppo universale della psicoanalisi moderna.
La dizione che compare nel titolo italiano "La teoria delle relazioni oggettuali" (quello originale, più generico, ma anche più ambizioso, era "La riformulazione del campo psicoanalitico") - vuole sottolineare come la Hughes abbia caratterizzato gli autori che ha scelto per protagonisti del suo libro - Melanie Klein, Ronald Fairbairn e Donald Winnicott - a seconda del modo in cui si discostano dalle ipotesi freudiane circa il momento in cui nella mente infantile si delinea la consapevolezza del rapporto con l'altro (l'oggetto), in relazione al processo di sviluppo della struttura della personalità ed alle vicissitudini delle pulsioni.
Vediamo dunque come questa studiosa utilizzi solo nei due primi brevi capitoli la sua competenza specifica per ricostruire il contesto storico e le dinamiche sociali, umane ed istituzionali che hanno fatto da sfondo alle celebri "controversie" del piccolo popolo degli psicoanalisti riuniti nell'Istituto di Londra. Il resto del volume è invece equamente distribuito per tracciare delle succose sintesi del pensiero e dell'operare clinico dei tre psicoanalisti. Dichiaratamente è stato scelto un taglio espositivo semplice, "per contribuire a dissolvere l'aria di mistero che circonda la psicoanalisi" con uno stile atto a "mettere a suo agio sia il profano che l'addetto ai lavori ". In effetti, può essere utile per un giovane lettore trovare raccolti in poche pagine i concetti chiave ed i modelli dei diversi autori e poterne intuire la discendenza o l'inconciliabilità con i paradigmi basilari di Freud; tuttavia, nello sforzo di esemplificazione didattica, si perde anche il fascino del linguaggio e del percorso di pensiero di ciascuno e soprattutto rimane in ombra l'emozione che ancora oggi è in grado di evocare la loro avventura terapeutica con i pazienti. Va anche considerato che c'è una certa sproporzione tra le tre figure che la Hughes ha scelto di mettere a confronto, perché se Melanie Klein è senza alcun dubbio la personalità di maggior spicco del "dopo Freud " e se Winnicott a sua volta costituisce un punto di riferimento prezioso per moltissimi psicoanalisti dei nostri giorni, per contro Fairbairn non si può considerare un caposcuola. Paradossalmente, però, è questa la parte del libro che risulta più interessante e più utile per un lettore che in molti casi non ha avuto la possibilità di incontrare le opere di Fairbairn in edizione italiana.
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