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Il filosofo è fuori posto e fuori tempo, è colui che legge il presente come sintomo, che ha un atteggiamento innaturale, “fa il morto” e la sua scrittura è postuma (Derrida), si pone fuori dal presente pur rimanendovi dentro, è un morto vivente guidato dalla sragione, è un “ragno che tesse la sua tela”. Sono questi i caratteri della figura del filosofo presentati da Eleonora de Conciliis nel libro Psychonet, che descrivono anche, implicitamente ma precisamente, il lavoro svolto dall’autrice in questo testo, col quale tenta di diagnosticare il presente standone dentro e fuori al tempo stesso.
Alla base della sua analisi c’è un’idea di umano puntuale, “affascinante e terribile” – per usare gli stessi aggettivi che de Conciliis attribuisce alle differenze e alle singolarità che popolano il nostro mondo come teatro percettivo –, un’idea sviluppata nel suo precedente volume Il potere della comparazione. Un gioco sociologico ( Mimesis 2012). Qui l’autrice proponeva infatti, sulla scorta di Nietzsche, la definizione di umano come “animale malato di comparazione”: la condotta individuale è sempre anche sociale, nel senso che gli esseri umani si imitano a vicenda, si “delirano” differenziando i propri comportamenti da quelli degli altri. E l’identità personale si costruisce soltanto grazie a tale comparazione aggressivo-difensiva, poiché sottrarsi alla pulsione comparativa (anche quella altrui) è impossibile, al punto che si può affermare, nelle prime pagine di Psychonet, che letteralmente “siamo intossicati dall’altro”.
Se la proposta di un soggetto sempre e naturalmente sociale e comparativo è coraggiosa, e convincente, già da queste brevi citazioni si può intuire la tonalità pessimista – ma forse soprattutto provocatoria e addirittura ironica nei toni a volte apocalittici – che nel libro di cui scrivo approda alla definizione della società attuale come psicotica, in quanto segnata fortemente da un generale ritiro dalla realtà e dalla sua sostituzione con un delirio. La società globale sarebbe contraddistinta da una “inedita forma di interdipendenza comparativa”, per la quale si può parlare di “epoca della iper-comparazione”. Se nel passato la comparazione, collettiva e individuale, era gerarchicamente organizzata, oggi – con il capitalismo finanziario, la continua connessione al web, il consumismo di massa – il confronto è sempre più “superficiale, forsennato e caotico”. La percezione delle differenze si dilata così nell’individualismo di massa all’infinito, in una paradossale aspirazione di massa all’unicità.
Tuttavia, se il patologico è coestensivo alla società, la minoranza che si accorge della psicosi può al contrario essere percepita come folle, ovvero perdente e disfunzionale laddove la psicosi odierna è massimamente funzionale, “bianca” o fredda, narcisistica ma integrata, socializzata; in questo contesto, la psicoterapia è la “nuova religione del sé” che fa dello psicologo un coach, un alleato dell’imprenditore, attento a proporre in primo luogo un percorso adattivo: “il mito della salute mentale è radicato nella gestione biopolitica dell’igiene pubblica”. In questa parte del libro, quella più debitrice alla ispirazione foucaultiana, ci si chiede cosa ne è oggi del partage tra ragione e follia inaugurato dal grande internamento nel XVII secolo, e poi di quello del XVIII, per cui la “sragione” viene relegata in una dimensione filosofica o artistica e separata dalla follia, che viene dunque inferiorizzata come malattia. Ebbene, la normalizzazione sociale delle psicosi fa sorgere oggi una follia ordinaria, piatta, senza aura, di cui tutti siamo testimoni. La nuova fusione tra ragione e follia avviene non nel segno della poesia e dell’incantamento ma in quello della povertà e del conformismo, dove la follia è “demenza piacevolmente inconscia” che non pregiudica il funzionamento della società capitalistica.
Se questa è la diagnosi concernente la prima parte del titolo di questo testo, la seconda parte ha a che fare invece con il coté più baudrillardiano del volume (in particolare, sviluppato nell’ultimo capitolo), nel quale il web viene descritto come inconscio estroflesso, come “corpo senza organi” che si nutre dei corpi dei suoi utenti. Causa e conseguenza della nostra passività rispetto al web, per cui ne accettiamo senza esitazione tutti i contenuti, la trasmigrazione dell’inconscio fuori dall’apparato psichico e la sua estroflessione nella rete: “Nel web l’interno diventa letteralmente esterno, proprio come, nella psicosi, l’inconscio si presenta a cielo aperto e il simbolico diventa reale”. In opposizione a interpretazioni contemporanee molto note, l’autrice argomenta che la figura della nostra contemporaneità non è tanto “l’uomo senza inconscio” ma l’inconscio senza uomo, un inconscio pubblico, esposto, trasparente.
Occupandomi di filosofia ma anche di cinema, e sapendo come ogni novità tecnologica sia sempre stata accolta con timori esagerati, diffido istintivamente delle descrizioni catastrofiste del web e delle tecnologie. Tuttavia, l’aspetto notevole della diagnosi di de Conciliis è che in questo testo il passato non assurge mai a ideale immaginario. L’autrice rimane coerente con un’idea lucida e senza sconti dell’essere umano e della sua aggressività, che non riguarda solo il nostro tempo e con la quale è difficile dissentire completamente. Agisce inoltre durante la lettura, in modo quasi ipnotico dato il ritmo incalzante del libro, il fascino della “terribilità” di ciò che si ha il coraggio di dire, e che non è del tutto alieno da una sorta di humour nero. Così per esempio il paragrafo sulla famiglia, dal titolo “Il bambino-dio”, che descrive genitori manipolati dalla “prole fallica”. Tra ironia e spietatezza, de Conciliis può affermare (esentandoci dal farlo personalmente, ma consentendo al lettore, alla lettrice, una certa soddisfazione liberatoria): “ben lungi dall’essere qualcosa di naturale, la famiglia è una istituzione storica assorbente e conformista, che nel giro di pochi decenni è stata profondamente modificata dalla società dei consumi: in termini sociologici, il consumismo ha smascherato e insieme radicalizzato la relazione interna esistente tra famiglia e società – tra comparazione pubblica e privata, tra il figlio come sostituto del fallo (oggi anche per il padre) e la genitorialità come surrogato del valore sociale (ancora oggi per la madre)”.
Insieme al fascino di questa visione radicale emerge però, nella lettura del libro, anche il desiderio di trovare una via di fuga da questa prospettiva, che l’autrice sembra invece non ipotizzare. Mi chiedo cioè se non sia possibile individuare momenti della nostra esistenza in cui siamo in grado di spezzare questo delirio delle differenze, per lo meno nella sua versione più tormentata. Un esempio potrebbe essere l’esperienza estetica, intesa nel suo senso più ampio, come sosta presso se stessi e nel presente, in cui fermare le interpretazioni e i significati, oltre allo sguardo comparativo e inquieto che di solito ci caratterizza.
Daniela Angelucci
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