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Anno edizione: 2017
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L'opera si compone di poesie e prose alternate, divise in sezioni tematiche. I testi sono numerati, alcuni scritti in prima persona, altri in terza o in seconda. Alcuni versi sono interessanti, ma nel complesso l'opera è troppo deprimente e disincantata. Alcune prose poi lasciano addosso un senso di disgusto, noia e straniamento.
Finalmente un poeta italiano è arrivato, anche se almeno con un secolo di ritardo sulla storia e dalla lezione americana, a capire che la "poesia prosastica", ovvero la poesia della poesia, non significa fare un raccontino verticale, che deve controllare più da vicino il fiato, che non trova pronto il freno della rima, della metrica studiata, ma ne deve ricercare una propria, fatta di dentro. Peccato, però, che tutto sembri detto dall'alto verso il basso, basso professorale: il poeta della poesia sa che tutto quello che sente arriva dal basso, e che basso deve tenere l'orecchio, perché se si alza non sente niente.
“La pura superficie” delle cose, che Guido Mazzoni descrive in versi e prosa, si offre indifferente allo sguardo dell’autore, compreso in un suo ruolo di documentarista obiettivo e poco coinvolto nell’esplorazione di sé e del non sé, quasi infastidito dalla materialità di ogni vicinanza. Contiguo è l’altro, ma non vicino. E anzi, disturbante, angoscioso nella sua pretesa di rendersi presente: «la vita degli altri è bianca e spettrale», «siete un luogo inabitato». Se gli altri sono “spettrali”, l’autoritratto che l’autore dipinge di sé è altrettanto impietoso: «Sono una piccola persona, nessuna fede / mi accoglie veramente, voglio molto poco», «Non aderisco a nulla». Esperienze personali e tragedie collettive risultano intercambiabili, nella coscienza poetica attonita e sconcertata di Guido Mazzoni: brani narrativi intercalati a versi, risentiti nel richiamo severo a un’indignazione morale che tuttavia si confessa insincera, fittizia, probabilmente morbosa nella sua attrazione verso la brutalità delle stragi: «si capisce che gli altri non ci riguardano o non ci interessano», «Da qualche tempo gli eventi scivolano sopra di me, / non mi toccano». Uno schermo difende e protegge da ogni alterità, e insieme intrappola, condanna a un’inscalfibile incomunicabilità, a una gelida ipnosi. Il reale, la storia non sono più interpretabili con gli schemi rigidi del passato - bene e male divisi nettamente a metà, capitalismo e socialismo, sfruttati e sfruttatori - se persino il proletariato dà fastidio, le donnette precarie sono galline, i giovani insulsi e prede di tempeste ormonali, i colleghi insopportabilmente vacui. Un’infelicità senza desideri, quella espressa da Guido Mazzoni, in versi che forse lui stesso troverebbe retorico definire poetici: denotativi, prosastici, privi di qualsiasi ritmo, artificio letterario, innovazione linguistica: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. / Ho scritto un testo che rimane in superficie».
Recensioni
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La poesia, si sa, sta sempre peggio.
I racconti vendono poco? La poesia meno.
La narrativa di qualità fatica in libreria? La poesia non ci arriva proprio.
Il campo letterario è fatto di gruppi? Quello poetico di conventicole.
I romanzieri non arrivano a fine mese? I poeti crepano direttamente di fame.
Eppure non si dice che dietro a ogni romanziere c’è un poeta fallito? Non è ovvio che una poesia davvero riuscita sfondi barriere che un grande romanzo può solo sfiorare?
Che fare allora? Forse solo ribadire che c’è ancora, sugli scaffali, poesia che merita di esser letta e consigliata.
Dove stanno i libri di poesia-poesia, in italiano? Eccone uno. La pura superficie di Guido Mazzoni è un testo magistrale, che si configura come un’isola a un tempo rarefatta e intensissima nel nostro panorama poetico. La superficie è quella delle cose, degli altri, dell’io: in questo libro Mazzoni sviluppa le suggestioni lanciate nei Destini generali (Laterza 2015), ma abbandona il piglio del saggista in favore di una presenza-assenza traslucida, dolente, elettrica, qualcosa a mezzo tra un daimon straziato e la fredda lente degli occhi di un robot, sublimando il senso di impotenza di chi è rimasto sprovvisto di un approdo (non solo politico ma anche trascendente) in una nuda responsabilità dell’esistere, nascosta negli spazi tra le cose.
Vanni Santoni
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