Dal dopoguerra a una Roma città aperta, dalla Dolce Vita alla Roma-ricotta pasoliniana. In viaggio attraverso gli anni che hanno dato gloria e morte all'Urbe.
Cy Twombly era incantato da Roma, la città gli sembrava come una foresta architetturale, che seguiva l’andamento ondeggiante del barocco e che ancora non era nascosta dal traffico. Più tardi definì quel periodo “Quando Roma era un paradiso”.
Quando la guerra finì, sembrò che i romani quasi non se ne fossero accorti. Roma liberata dal fascismo era bella, sovrana e ancora più grande: i mostri architettonici non avevano fatto ancora il loro ingresso, ed era possibile incontrare con lo sguardo la distesa delle campagne. Intorpidita ma sopravvissuta, Roma era ancora una donna fertile che si risveglia in un giorno di primavera e la popolazione non sembrò particolarmente disorientata dalla nuova rinascita post bellica. Sicuramente qualcosa accadde in quelle strade, rispetto al resto d’Europa: sembrava quasi che i romani avessero dimenticato di essere stati fascisti, di aver messo piede in piazza Venezia, acclamando a gran voce il Duce. Le camicie nere erano già state dimenticate dalla memoria collettiva, e Roma si svegliava così alla fine degli anni Quaranta: ammaccata ma irrequieta, senza sensi di colpa e in preda a un prurito edilizio. Attraverso l’entrata così poco trionfale degli americani («bella la marcia di questi volti che escono dai nascondigli per vedere la marcia dei soldati americani. Marcia descritta come trionfale, ma fatta di uomini sporchi, stanchi, i più deboli mandati dall’America»), Stefano Malatesta inizia il suo viaggio attraverso la città dei Fori in un percorso che parte dagli anni post bellici fino ad arrivare ai folgoranti anni del miracolo economico romano.
Un racconto in bianco e nero, nostalgico e ammaliante, il profumo della liberazione e quello delle taverne nate in ogni anfratto della città. L’allegria della rinascita dell’epoca d’oro in cui vigeva “l’arte dell’arrangiarsi” e il motto del “paraculo”, e il disorientamento di tutte quelle persone che si ritrovarono, da un giorno all’altro, nel centro d’Europa: la ville Lumière era tramontata, ora l’arte, il cinema, la letteratura, passavano in anticipo da questa città. C'era dappertutto la frenesia del fare, l’irrequietezza dell’espressione. Roma sempre più grande e più bella di quella Parigi che fino ad allora aveva regnato indiscussa, iniziò ad attirare a sé personaggi così influenti che srotolarono il tappeto rosso delle sue sorti gloriose. Gli artisti nascevano per caso, così come i “cinematografi”: bastava mangiare nella taverna giusta, molto spesso a sbafo, oppure trovarsi nei giusti stabilimenti di Ostia, quando ancora non era un lido amato dagli scrittori, per scoprire che la carriera e il successo poteva nascondersi dietro il pattino. Sì, perché il cinema e i “cinematografi da osteria” correvano su e giù per gli studi di Roma e divennero linfa vitale, fino a dettarne mode e gusti. Erano i tutori di un’energia cristallina che trasformò l’intera città in un set all’aria aperta.
Sulla scia del cinema rivoluzionario di Fellini, iniziarono ad arrivare gli americani. Dopo quella della Liberazione, questa seconda marcia di americani su Roma, segnò un nuovo periodo. Furono proprio gli uomini del cinema a scoprire Roma nel dopoguerra, diversamente da Parigi, che invece fu scoperta dagli scrittori. Era normale incontrare, in quegli anni, the genius Orson Welles, il commediografo Tennessee Williams, Gore Vidal, che nella Capitale aveva proprio la residenza, Truman Capote, e tutti gli altri. Gli americani esportarono i sogni dei romani. I romani li affidarono al cinema:
A Ostia i frequentatori della spiaggia, quelli che davano il tono alla cittadina balneare, erano i cinematografari. Il termine era nato nel dopoguerra insieme a vitelloni e paraculi e stava a indicare la gente del cinema senza una qualifica precisa, personaggi illetterati e rozzi per la maggior parte, l’esatto opposto dei cineasti. I cineasti erano Rossellini, Visconti, De Sica, i cinematografari erano tutti quei produttori nati nel dopoguerra come funghi che avevano trovato nel cinema il loro habitat naturale […]. Ogni città ha sempre avuto un’arte a fare da locomotiva, che tirava tutte le altre come vagoni. A Roma, nei primi dieci anni del dopoguerra, è stato il cinema a fare da locomotiva. Non solo quello dei cineasti ma anche quello dei cinematografari, personaggi inattendibili, notoriamente bugiardi ma indispensabili, immortalati in una famosa battuta di Ennio Flaiano, nume tutelare del periodo: “Si fa il film, certo, certissimo, anzi probabile”.
Quella era anche la Roma dell’arte e degli artisti, delle gallerie, così come la città del commercio dei falsi d’autore. La seconda parte dell'opera è dedicata a quel mondo dell’arte che a Roma trovò il suo splendore. Curiosi e scaltri personaggi si aggiravano per la città giostrando le fila del mercato dell'arte italiano e internazionale. Stefano Malatesta presenta così una galleria di personaggi, da Pico Cellini, “il grande cacciatore di falsi” a Plinio de Martiis, dal grande Marcel Duchamp a Cy Twombly. Fotografi, galleristi, pittori, promotori culturali, editori, diedero vita alle esperienze artistiche dell'epoca, in una febbre creativa che travolse tutti: chi era del mestiere, chi imparò a esserlo, chi finse di saperlo fare tutta la vita. Si respirava un’aria internazionale, si respirava l’aria tangibile di chi non si stupisce di nulla, ma guarda senza troppo scomporsi la meraviglia del sogno italiano diventare realtà. Si respirava l’aria della città eterna che era tornata addobbata di oro. Era l’aria di Roma, quando era un paradiso.
A cura di Wuz.it
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