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La prima tra le 48 lettere raccolte nell’epistolario era stata scritta da Sereni a Giudici nella primavera del 1955. L’ultima il 20 aprile 1982. Un carteggio durato quasi trent’anni, a cementare un’amicizia partita in sordina e in maniera piuttosto convenzionale, e via via diventata sempre più solida. La curatrice del volume, Laura Massari, nella prefazione definisce in questo modo il sodalizio tra gli autori: “due poeti così diversi, che si trovano a vivere a Milano al principio degli anni Sessanta: sfuggente nella sua elegante e malinconica profondità l’uno, timido ma presente nella sua irruenza impegnata con la storia e con la vita, l’altro”. Sereni e Giudici avevano inaugurato la corrispondenza in virtù di uno scambio di pareri sulle rispettive produzioni edite e inedite, offrendosi reciproche occasioni di commenti critici, recensioni e traduzioni, e manifestando sempre vicendevole stima e rispetto, pur nella diversa valutazione di cosa significasse scrivere in versi. Il più dibattuto tra gli argomenti affrontati dai due intellettuali era appunto il ruolo rivestito dalla poesia nella cultura e nel mercato librario, la sua origine e destinazione, la sua funzione e responsabilità sociale e politica. Più scettico Sereni riguardo a una finalità concreta e misurabile della parola poetica, più entusiasticamente convinto di un suo compito etico Giudici. L’irrinunciabile sguardo che Giovanni Giudici volgeva, con ironia e autoironia, al reale, alla cronaca, alle motivazioni psicologiche del proprio agire, trovava nella disincantata amarezza, nella perplessa esitazione di Vittorio Sereni uno stimolante motivo di riflessione, che rinsaldava in entrambi la fiducia nella natura essenzialmente comunicativa della poesia, contro il contingente prevalere della neoavanguardia letteraria, concentrata su un estremizzato sperimentalismo linguistico.
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