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Si sa che l’ultima guerra, e in particolare la Resistenza, hanno per lo più dato origine in Italia a storie di ‘uomini e no’, inclini a un’aspra sentenziosità. Nulla di meno congeniale a Landolfi, il quale scrisse febbrilmente la sua storia di guerra (questo Racconto d’autunno) nel 1946, ma giocando su tutt’altra tastiera. Qui un indefinito e sanguinoso conflitto fa da quinta a una vicenda di amore e morte che non sdegna nessuno degli attrezzi scenici del romanzo nero, dal ritratto ominoso agli animali demoniaci. E, al centro troviamo una ‘dark lady’ innocente e perversa, evocata per via necromantica, che ci appare una vera concrezione dell’eros landolfiano. Mai come in questo libro Landolfi si è abbandonato al puro romanzesco, senza turbare e frantumare la narrazione, anzi lasciandola fluire in una corrente rapinosa e ingannevole. Eppure, la perfetta adesione ai canoni del racconto fantastico adombra in questo caso l’insanabile ferita inflitta all’autore degli eventi. La guerra aveva infatti profanato il ‘covo di memorie’, il ‘Ricettacolo dei sogni’ di Landolfi: la nobile dimora di Pico, che aveva assistito alla stesura di tutte le opere della sua prima stagione ed era per lui una sorta di guscio protettivo. È questo il luogo tenebroso del Racconto d’autunno, trasformato dalle erbe selvatiche in un «gran tumulo verde», mentre attorno alla fantomatica figura femminile si addensa un «giallo leggermente abbrunato, come un bagno di funebre oro».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
A volte fare parlare il testo vale più di mille recensioni: "Lo spettacolo che mi si aperse allora non presentava per verità nulla di singolare, all’infuori di una singolarissima suggestione." "Fo ora grazia al lettore dei discorsi che tenni meco stesso" "Determinai di uccidere i cani nella loro tana medesima" "Essi seguitarono a indietreggiare, pur seguitando..." "Esse pareti, poi, e particolarmente il suolo e il cielo, presentavano il più curioso e tetro spettacolo che io abbia mai veduto, […] bianchi e boffici, che presi dapprima per funghi, che erano invece mostruosi fiori di muffa; che, ad afferrarli, si dissolvevano totalmente in un velo appena d’umidità sulla palma.” L’uso dei pronomi al posto degli articoli determinativi, l’uso di un linguaggio figurato (cielo al posto di soffitto), l’uso dei femminili al posto dei maschili (palma al posto di palmo, da notare peraltro che in italiano sono due cose diverse) e l’invenzione linguistica fine a se stessa (boffici) e non inserita nella creazione di un codice, come accade per esempio in Gadda, conducono a una sola conclusione: il linguaggio, è ridondante, ripetitivo, farraginoso, fasullo. Mostra più presunzione che perizia, al punto che io l'ho trovato involontariamente comico. A completare il quadro una quantità di luoghi comuni, dalla "sorda eco" al "porre mano", che vanno benissimo se vuoi fare Ken Follett, ma sono un pugno in un occhio se vuoi fare Dante. Mediocre a livello narrativo. A pag. 100 il protagonista sta ancora bighellonando per la tenuta in un contesto di stereotipi di genere davvero imbarazzante. A cominciare dai personaggi. Adelphi ci informa che il critico Giuseppe De Robertis definì il libro "perfetta e commossa elegia". Giudizio a mio avviso determinato da una formazione umanistica molto ottocentesca e distante anni luce non solo dalla sensibilità contemporanea, ma anche dalla lezione del realismo americano degli anni '30 e dalle sperimentazioni dei primi anni del '900.
"Racconto d'autunno" è un romanzo breve pubblicato nel 1947 dallo scrittore, poeta, traduttore e glottoteta italiano Tommaso Landolfi [1908-1979]. Il romanzo è scritto, come solito di Landolfi, in una lingua estremamente ricercata, per certi versi assimilabile finanche al surrealismo. Un vago e cruento conflitto fa da sfondo a una ingarbugliata storia d'amore e di morte di ambientazione gotica, che non disprezza nessuna delle componenti sceniche del romanzo nero: un individuo braccato (l'io narrante protagonista), una vetusta abitazione, un enigmatico vecchiardo, una serie di animali "demoniaci", un ritratto funesto, l'ammaliante donna del ritratto, un sotterraneo che nasconde un segreto infausto e, infine, il fulcro dell'opera, un cerimoniale di negromanzia, con al centro, appunto, una "dark lady" insieme candida e perfida, invocata proprio per via necromantica. Che dire?... Landolfi scrisse il romanzo nel 1946, a Pico, nel palazzo di famiglia, parzialmente devastato dagli accadimenti della guerra. Opera intrisa di fantastico, anche se il fantastico viene comunque utilizzato per mascherare la tragica vicenda autobiografica dell'autore: la precoce dipartita della madre, il complicato rapporto con il padre e la distruzione della dimora della sua infanzia. Elementi fondamentali alla base del romanzo, pure in questo lavoro, in linea proprio con la media della letteratura landolfiana, sono: il meditare intorno all'occaso, il linguaggio sperimentale e l'alterazione espositiva... Lettura meritevolissima!
Sembra che Racconto d’autunno sia l’opera più riuscita e più nota, soprattutto all’estero, di Tommaso Landolfi, narratore laziale di certo fra i non più conosciuti, anche per una sua naturale ritrosia a essere parte di correnti letterarie, nelle quali in verità sarebbe peraltro difficile trovare una sua collocazione. L’aspetto saliente delle sue opere, e ovviamente anche di questa, è lo stile ricercato che non è un corollario, ma uno degli scopi, e senz’altro il principale, di ogni suo scritto. Anche un lettore non particolarmente attento potrà notare la ricercatezza del linguaggio, l’uso, mai inappropriato, di termini non frequenti, ma soprattutto un’impostazione che privilegia la descrizione di ambienti e di atmosfere con una precisione mai eccessiva e che anzi affascina, con proiezioni oniriche e la capacità di ricreare una tensione che accompagna perfettamente angoscia e curiosità. Inserito in un periodo storico che, senza nominarla, ricorda quella della Resistenza, Racconto d’autunno è un’opera per certi versi visionaria, densa di metafore che un po’ ricalcano aspetti della vita dell’autore, ma che anche sono propri di ogni essere umano, per il quale la propria esistenza è già un mistero. Il castello in cui si imbatte il protagonista, un edificio ormai cadente alla cui scoperta dedica pressochè per intero il suo soggiorno, è una lunga sequenza di camere, di scale, di porte, di sotterranei, un labirinto da percorrere senza mai venirne effettivamente a capo. Cosa nasconde? Quale segreto si cela? Con pochi personaggi (il vecchio nobile, due cani, la giovane figlia che tanto assomiglia alla madre morta la cui immagine è impressa in un dipinto) il protagonista si muove in un’atmosfera gotica, in cui predomina il buio, é timoroso, ma curioso di conoscere, ossessionato da irreali presenze, di cui una scaturita da un esperimento di negromanzia. Da leggere.
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