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Di solito le suonate per pianoforte sono a due mani. Per artisti affiatati, possono essere eseguite a quattro mani. Ben raramente si ascoltano brani per una mano sola (la sinistra, scritti per musicisti che avevano perso il braccio destro nella Prima Guerra Mondiale). Qui il racconto è a sei mani e tre teste e la mia prima preoccupazione è stata che il romanzo fosse discontinuo e con notevoli sbalzi di stile. Invece lo stile è uniforme e ben omogeneo e sarebbe impossibile dedurre chi dei tre autori abbia scritto quali brani. Buon segno. Il titolo è una parafrasi del ben noto Noi, i Ragazzi dello Zoo di Berlino, curiosamente ambientato tra il 1975 e il 1977, proprio a ridosso del 1978, anno in cui si svolge questo racconto. Che non è un thriller violento o noir, come lo è invece uno dei capostipiti, Rififi di Le Breton, dove la violenza si spreca. La trama è più soffice e i personaggi più umani, come si respira anche dai loro nomi, il commissario Malaspina (la cui abbreviazione in Mala fa sembrare che sia passato dall’altra parte della barricata) e il Fernet (gran bevitore di Branca Menta, ovviamente), per citarne alcuni. A dieci anni di distanza dal ’68, fa piacere vedere che l’onda lunga è rimasta a Milano, con gli Indiani Metropolitani che ne combinano una grossa, il rapimento dell’elefantessa Bombay dallo zoo. Sullo sfondo, il rapimento di Aldo Moro. La valenza unica di questo romanzo è la ricostruzione fedele della Milano che fu, dei vecchi quartieri oggi scomparsi, delle periferie che una volta erano brughiere e oggi sono colonizzate da alveari umani. La rievocazione di questa atmosfera, con le canzoni dell’epoca, le radio libere che suonavano il tam tam per la città, i bar fumosi, dà un sapore unico all’intero racconto. Nel 1978 i tre autori erano bambini di pochi anni, il che vuol dire che devono aver fatto uno scavo profondo nella storia della Milano che fu. Complimenti!
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