In ognuno dei libri di Cognetti c'è una sorta di timidezza schiva, una grazia tutta particolare nell'evitare accuratamente ciò che può sembrare eccessivo, pleonastico, autoreferenziale, nella ricerca ossessiva di un modo pulito, piano, estremamente raffinato di portare il mondo sulla pagina.
Il ragazzo selvatico non fa eccezione. Pur essendo un quaderno di montagna, e quindi una sorta di diario pubblico, in esso l'autore evita accuratamente ogni tentativo di confessione che non sia assolutamente necessario, e ogni oggetto, sia esso un pendio, un'aquila, o un larice, è un pretesto per parlare di sé, di ciò che accade, senza mai rendere tutto ciò esplicito. La prima persona è usata con estrema parsimonia, in maniera del tutto particolare, quasi in punta di piedi: sembra una di quelle bestie notturne che ogni tanto fanno capolino nelle pagine dedicate al rifugio in cui vivono; le si scorge appena, ti guardano, le guardi, l'istante successivo sono già scomparse, fuggite chissà dove nel buio della foresta. La trama è molto semplice: uno scrittore dalla creatività bloccata decide di passare un periodo in montagna nel tentativo di capire cos'è che non lo fa scrivere. A partire da quel momento intraprenderà un percorso di progressivo allontanamento dalla società, dal rumore, dalle relazioni affettive, alla continua ricerca dell'attenzione necessaria per tornare a scrivere. In questo,
Il ragazzo selvatico è debitore alla tradizione di un certo tipo di letteratura: quella che ha per oggetto l'eremitaggio. Thoreau, Tesson, e a suo modo anche Rigoni Stern, sono tutti autori che descrivono il medesimo percorso, convinti come Cognetti che tale percorso abbia un senso se, e solo se, finisce sulla pagina, se ne rimane traccia, se è possibile tramutarlo in letteratura. Nel caso di Cognetti, però, ci sono almeno due elementi che rendono tutto più complesso. Primo: Cognetti è uno scrittore di racconti, il migliore forse, tra quelli che abbiamo oggi in Italia. Malgrado ciò, questo è il suo secondo libro (il primo era
New York è una finestra senza tende,Laterza, 2010), dentro il quale sperimenta una forma differente dal racconto. In entrambi il pretesto è autobiografico (un periodo trascorso in America nel primo, un periodo trascorso in montagna nel secondo). Leggerli insieme vuol dire tenere conto di una piccola ma decisiva mutazione dell'universo "cognettiano". Sembra quasi che l'autore adoperi l'autobiografia come mezzo per avvicinarsi al romanzo. In un simile schema il suo ultimo libro,
Sofia veste sempre di nero (Minimum fax, 2012), che altro non è se non un romanzo formato da una concatenazione di racconti, segnerebbe un punto di passaggio, quasi una transizione da una forma narrativa a un'altra, perseguita mediante un estenuante esercizio di ricerca stilistica interiorizzato dall'autore. Il secondo elemento si riferisce all'oggetto dei suoi testi scritti. Non credo sia un caso il fatto che l'autore, sino a ora, abbia posto come oggetto di tutte le sue raccolte di racconti il femminile, esplorato in ogni sua possibile declinazione, mentre in tutte le sue opere diaristiche abbia fatto esattamente il contrario: abbia cioè utilizzato il maschile come punto di investigazione della realtà. In Cognetti c'è quasi una bipartizione tra il mondo del racconto e quello del romanzo che confluisce dentro una bipartizione primigenia, quella del maschile-femminile. È l'unico autore in cui ciò accade con tale regolarità, sintomo di un'avventura intellettuale che ha già fissato i propri binari pur se, probabilmente, ancora non conosce la propria meta. Una simile avventura presuppone una maturità sorprendente per un autore tanto giovane. A tal proposito, le ipotesi plausibili diventano molteplici. In Cognetti potrebbe prevalere l'ossessione del maschile, proiettandosi anche sui racconti: in tal caso è lecito aspettarsi un libro simmetrico a
Sofia veste sempre di nero, una sorta di
Olive Kitteridge declinato al maschile; è anche possibile che Cognetti mantenga questa bipartizione ancora a lungo: in tal caso le sue opere future continueranno a essere investite da questa singolare oscillazione tra i due generi e le due forme letterarie; e perché non, invece, un Cognetti romanziere puro? La parabola di un autore che nelle sue opere compie un passaggio non solo formale (racconto/romanzo), ma anche intimo, personale (femminile/maschile), per approdare a un equilibrio delicato tra vita privata, opera letteraria e diario pubblico: cosa lo vieta? Per ognuna di queste ipotesi (ma l'elenco potrebbe allungarsi a piacere),
Il ragazzo selvatico segna sempre e comunque un possibile crocevia, una stazione intermedia verso qualcosa di magmatico che lentamente sta emergendo. È questo, in fondo, il grande merito del libro: tenere aperte tutte queste possibilità, lasciare che il lettore si perda a suo piacere dentro questo complicato gioco di specchi, prima di accorgersi che quegli specchi non sono altro che finestre. Daniele Zito