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Nell’agosto del 2008 l’alpinista valtellinese Marco Confortola, insieme a un gruppo eterogeneo di scalatori giunge sulla vetta del K2, 8611 metri, la seconda montagna più alta della Terra, la più bella, la più difficile. E’ tardi, e lo sa, ma il fascino della vetta è irresistibile. Sopra il “Collo di Bottiglia”, il passaggio più impegnativo e tecnico, cala l’oscurità. Decide di trascorrere la notte in una buca nella neve, con altri due alpinisti attardati, Gerard, irlandese, e Wilco, olandese. A oltre ottomila metri la notte è gelida e interminabile. Il mattino Gerard e Marco vedono una scena terribile: due alpinisti coreani sono appesi a testa in giù, feriti e inermi; il loro sherpa è seduto su una piccola sporgenza. Li calano e avvisano i soccorsi: il trasporto, in montagna, è impossibile. Confortola è sfiorato da una valanga, che ha travolto altri alpinisti, sopra e sotto di lui. Sfinito, si abbandona, ma è soccorso dallo sherpa Pemba che lo accompagna alla tenda. Al campo base un elicottero lo trasporta in ospedale: i suoi piedi sono congelati. Comincia un’altra lotta: i medici devono amputare le dita, la riabilitazione è lunga e dolorosa, nonostante l’aiuto e il supporto di amici e familiari. La volontà, però, è più forte: dopo un anno e mezzo Marco torna in Nepal, per scalare un altro Ottomila, il Lhotse. I libri scritti da alpinisti non hanno la pretesa di essere dei capolavori letterari: vogliono comunicare la passione per la montagna, professione e ragione di vita. Si assomigliano tutti: la lunga, noiosa, impaziente attesa al campo base, la fatica, l’esaltazione, l’adrenalina della scalata; a volte c’è la tragedia in agguato, perché la montagna non perdona errori, e c’è la paura, la lotta per la sopravvivenza. Spesso ci sono polemiche, suscitate da chi non comprende lo sport estremo. Confortola racconta qualcosa di più: la determinazione feroce di essere ancora un atleta, nonostante la menomazione
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