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recensione di Piasenza, P., L'Indice 1994, n. 2
Il lavoro di Scaraffia affronta due temi discussi tradizionalmente con scarsa fortuna in Italia: il rapporto tra fedi e pratiche rituali diverse, da un lato, e i percorsi di conversione o di "tradimento" religioso, dall'altro. Le ragioni di questa relativa indifferenza (forse meno netta a proposito dei problemi di relazione tra ebrei e cristiani) risiedono in gran parte nella difficoltà della storiografia a riflettere sulle categorie utilizzabili per definire le identità sociali: un argomento che la moda di questi anni non è riuscita a salvare da approssimazioni e genericità. Nel lavoro dell'autrice la questione è affrontata attraverso il ricorso a storie di vita di cristiani passati all'Islam, particolarmente nel Cinque e Seicento e tratte da diversi materiali inquisitoriali. Ciò che interessa a Scaraffia, più che ripercorrere analisi quantitative o sociali già tentate altrove (L.B. Benassar, "I cristiani di Allah", Milano 1991 e particolarmente A. Gonzalez-Raymond, "La Croix et le Croissant", Paris 1992), è soprattutto l'analisi delle categorie culturali che rendono possibile la decisione dell'abiura o la sopravvivenza dell'identità "culturale" dei singoli a una conversione meno libera o imposta dai fatti. La tesi è molto decisa: la frequenza delle conversioni cristiane all'Islam (alle quali, tra l'altro, non corrisponde un analogo movimento nella direzione opposta) suggerisce all'autrice che il cristianesimo sia per eccellenza la religione che rende possibile agli individui l'integrazione di altre ritualità religiose e che consente, così, l'assimilazione di diverse culture. Questa impostazione è illustrata dal capitolo sulla "contaminazione", forse il più rilevante del libro: qui si sottolinea come l'orizzonte in cui si muove il cristianesimo, da san Paolo in poi, preveda la dissoluzione degli interdetti che collegano inestricabilmente l'appartenenza legittima alla comunità dei credenti con l'osservanza di alcuni gesti rituali e sociali non modificabili (alimentazione speciale, circoncisione, e, in generale, riconoscimento delle categorie fisiche ed esterne di "puro" e "impuro"). Per l'autrice un simile contesto religioso permette di rendere conto della straordinaria plasticità dei comportamenti dei rinnegati, della loro facilità ad adattarsi ai riti altrui e dell'indifferenza nell'abbandonarli, oltre che di una certa benevolenza dell'Inquisizione nel riaccoglierli in terra cristiana. In questo modo potrebbe apparire meno paradossale di quanto non sembri riconoscere proprio in quei dimenticati transfughi verso l'Islam uno dei modelli del vero occidentale "moderno". Come si vede, il maggiore merito del libro, oltre a quello di contenere molte osservazioni di grande interesse, consiste nel rendere esplicito e argomentato un modello di interpretazione culturale dell'identità individuale e sociale e nel proporre con chiarezza un paragone tra cristianesimo e Islam sul tema della "modernità", paragone che percorre più o meno sotterraneamente non pochi dibattiti attuali. Proprio questa impostazione forte e storiograficamente orientata può lasciare prevedere che le polemiche sui "Rinnegati" non mancheranno, sia a proposito del taglio metodologico generale sia riguardo alle conclusioni di merito. Un risultato che il lavoro di Scaraffia non soltanto ampiamente giustifica ma sembra esplicitamente sollecitare.
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