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Giorgio Blandino e Bartolomea Granieri
LE RISORSE EMOTIVE NELLA SCUOLA pp.309, 22, Cortina, Milano 2002Tommaso ha sei anni e fa la prima elementare. Un giorno arriva e dice: "La maestra non mi vuole bene". La maestra ha urlato, il bambino non aveva capito bene il compito: qualcosa si è già rotto. Tutto probabilmente andrà per il meglio, ma intanto c'è stato un cortocircuito. Di questo si parla in una buona parte di questo libro. Della difficoltà di gestire la classe come insieme ed al tempo stesso come singole soggettività, di come sia frequente controllare l'ansia individuando i colpevoli (quelli che restano indietro, che disturbano), della profonda sindrome antieducativa che attanaglia gli insegnanti quando sono in difficoltà: quella che fa dire loro l'ultima parola prima di ogni ragionevole finale. Il "buon" insegnante è colui che "conosce la sua materia ed è capace di trasmetterla", ma è anche colui che "è capace di creare, far nascere e sviluppare buone relazioni di gruppo tra gli allievi". Insomma deve essere capace di stimolare le motivazioni apprenditive, come le chiama Barry Brazelton.
Ma non solo di questo si racconta: si attraversano le dinamiche e le interazioni tra adulti, le rappresentazioni spesso infantilizzanti che contrassegnano i rapporti nel "corpo docente": un corpo assente, spesso forzatamente anestetizzato, ma che dentro è un magma che fatica a esprimersi in maniera equilibrata. Forse è l'ansia del giudicare che uccide il pensiero educativo: a volte l'insegnante è portato a isolare l'allievo dal contesto relazionale dell'apprendimento; in alti casi è proprio la pretesa di "risolvere" un problema attribuendo ad aspetti familiari, ad esempio, la causa di un fallimento. In entrambi i casi non ci si mette in gioco.
Insomma c'è da riflettere, e la critica è forte, ripensando a quanto siano importanti (e quindi sottovalutate) nella scuola le risorse emotive che, nolens volens, sono in gioco nell'atto stesso di insegnare (e d'apprendere) e a quanto sia evidente il bisogno di formazione degli insegnanti in questa direzione. Ma attenzione: non si pensi a un insegnante-psicologo. Semplicemente si pensi a un insegnante che non ipostatizza il contenuto delle sue discipline, ma le contestualizza nella relazione d'apprendimento.
E c'è dell'altro: la centralità delle emozioni può anche dare un ruolo allo psicologo. Non come terapista (i luoghi, i tempi e le scelte sono altrove), ma come consulente dei gruppi e delle organizzazioni che s'intrecciano nella scuola dell'autonomia. Insomma una sponda capace di attivare la partecipazione, le abilità di controllo, la responsabilità degli insegnanti. L'approccio psicologico non è una magica panacea, bensì uno strumento da modulare nella prospettiva della formazione degli attori scolastici e del dialogo tra le parti. Un ulteriore punto di vista che non trasforma ogni ostacolo in una patologia, ma che permette l'esplicitazione degli ostacoli e delle sue possibili motivazioni. Si legge tra le righe l'utopia di un lavoro d'équipe transdisciplinare e di un percorso di supervisione che in altri ambiti educativi è largamente praticato con successo. Nel libro, tuttavia, ogni aspetto normativo ed istituzionale è lasciato fuori dalla porta: c'è da chiedersi se in una scuola che si prospetta sempre più classista, mercificata e funzionalizzata alla produttività immediata, dove lo spazio per le esperienze culturali si riduce, ci possa essere spazio per quell'esperienza di sé e degli altri che è la base per ogni desiderio d'apprendimento (dei bambini e degli adulti, assieme). Intanto leggiamolo e attrezziamoci.
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