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Il ritorno in un paese trasfigurato dell'oppressore, i ricordi di un mondo incantato ricco di cultura e gentilezza danno vita ad un reportage di viaggio che però non convince appieno. Sarà la continua sensazione di disfacimento e di rimpianto ma non ho provato le emozioni del primo libro un vero capolavoro. Anche l'autore sembra prendere le distanze da questo mondo con una cronaca fredda di ciò che incontra senza ricreare l'intimità del primo viaggio.
Ho letto il volumetto nel 1986 volando da Chengdu a Lhasa. Ci avrebbe aiutato a capire quali erano i cambiamenti fra la Lhasa dei nostri sogni e la città reale. Harrer era tornato con un incarico da parte del Dalai Lama. Oggi anche la Lhasa vista da Harrer nel 1982 è scomparsa. Gli edifici cinesi sono stati abbattuti da nuovi palazzi ferro cemento cinese. Trudurlo e pubblicarlo dopo quasi vent'anni è stata una operazione commerciale. Nel 1982, trent'anni dopo la sua fuga dal Tibet invaso dai cinesi, Heinrich Harrer riesce finalmente a tornare in quella che sente ormai come la sua patria adottiva. Tutto sembra cambiato: i templi rasi al suolo, il panorama sfigurato, la città trasformata in un triste spettacolo costringono l'autore a continui paragoni con il felice passato del Tibet indipendente, che l'aveva visto protagonista delle avventure di "Sette anni in Tibet". Ma Harrer non tarda a capire che, nonostante i tanti anni di occupazione e repressione, il tentativo di "cinesizzare" il paese è fallito. Il saccheggio e la distruzione di tesori unici e di migliaia di antichi monasteri hanno in realtà rafforzato la coraggiosa resistenza di un popolo sempre più ancorato alla sua religione, poderoso vincolo di unione culturale e sociale. Harrer ci accompagna così in un itinerario intenso e commosso, in cui l'amore per il popolo tibetano si intreccia con la difesa della sua misteriosa e saggia civiltà.
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