"Non riesco più ad ammirare qualcosa di bello senza pensare che lo perderò", riflette il narratore settantaduenne di Romanzo per signora, a poche pagine dall'inizio. In un certo senso, il succo del libro è tutto qui: ma è molto, molto più profondo di quanto sembra. Sbaglierebbe il lettore a pensarlo come un acquerello sulla giovinezza perduta o un libro intriso di nostalgia quasi postuma. L'esatto contrario: Romanzo per signora è un carico di vitalità mai arresa. La storia: due coppie di anziani membri del Rotary Club di Vigevano, più un amico rimasto vedovo, partono per un viaggio a Nizza. Sono tutti un po' acciaccati (il narratore ha la sclerosi multipla a insorgenza tardiva) ma sanno ancora godersi la vita e sono ferocemente determinati a farlo. Sulle prime sembra solo una piacevole vacanza in uno dei posti più belli d'Europa, ma le cose degenerano in fretta su tutti i fronti: il Buttafava (la cui replica preferita "Càgat adòs!" − non mancherà di piegare in due il lettore) sembra ancora più incattivito e delirante del solito, il povero Persegàti è mezzo rimbambito dalla perdita della moglie, e anche per il narratore, editor in pensione, arriva una grossa sorpresa. Per le vie nizzarde incrocia per caso il vecchio amico Leo, scrittore di talento da lui scoperto negli anni ottanta e di recente scomparso nel nulla. È l'inizio di una serie di avventure e disavventure incrociate che comprendono scene memorabili quali una rissa sfiorata tra il Buttafava e un camionista ucraino, l'acquisto di una palla di hashish da parte del narratore e del Persegàti (il primo lo fuma per ragioni terapeutiche, ma vi indulge oltre il necessario senza farsi problemi), spassose prese in giro delle mogli bigotte, un'inspiegabile fuga del Buttafava e così via. Si ride molto, ma si riflette ancora di più: sotto la messa in scena di questi borghesotti assurdamente provinciali (il dialetto domina alla grande anche nei migliori ristoranti di Nizza) crepita ben altro. Innanzitutto la loro condizione reale: il fatto che il Persegàti si vesta con della biancheria intima da donna è uno dei momenti più divertenti del libro, ma è soprattutto la dimostrazione più straziante di quanto la moglie gli manchi. Ma non solo: c'è ancora dell'altro. Un bisogno, una necessità, un imperativo. Quale? La metto così: restare, nonostante tutto, nonostante ogni dolore, fedeli alla vita. L'approccio estetico e dandy alle cose è un po' un leitmotiv dei romanzi di Pallavicini, ma è sempre messo in scena senza superficialità e senza moralismo, anzi come forma di un sincero e disperato amore per l'esistenza. Disperato perché − e in questo libro lo si capisce al meglio − il grande spettacolo prima o poi finirà, e nella maggior parte dei casi finirà in modo triste e patetico. I vecchi di una volta toglievano il disturbo in fretta. I vecchi di oggi (non c'è più la vecchiaia di una volta) rimbambiscono, si ammalano, resistono, tirano a campare fino all'esaurimento. I figli sono i loro badanti, e nel finale del romanzo verranno a prenderli per portarli a casa, quando le disavventure cominceranno a prendere il sopravvento sulle avventure. Ecco: cosa c'è di più terribile che vedere il proprio corpo e la propria mente cedere così? E quale rimedio è più radicale di riderci sopra o fumarsi una canna? In mano a un altro narratore potrebbe sembrare un inutile svilimento del dolore. Calato nella prosa mai banale di Pallavicini, diventa virtù. E come un fiume carsico sotto tali eventi scorre la storia della giovinezza e della maturità del narratore, profondamente legata alla figura dell'amico e scrittore scomparso, Leo. Non a caso un nome tondelliano (il protagonista di Camere separate): in un'intervista rilasciata al "Corriere della sera" il 21 febbraio, Pallavicini definiva il suo personaggio una specie di "Tondelli cattivo". Un divo sprezzante e inaffidabile, pieno di talento, ma senza l'umanità dello scrittore di Correggio. Le parti sul passato comune nella Milano letteraria degli anni ottanta sono forse le più vibranti d'emozione, le più belle del libro, e insieme sono quelle che ne forniscono una chiave di lettura. Facendo splendere la semplice filosofia di cui sopra. È il cinismo di Leo a trascinarlo nel baratro dell'isolamento e della volontà di farla finita con l'esistenza, come ammette chiaramente nel bellissimo, nervoso incontro finale. È lui, pure molto più giovane dei coprotagonisti, il vero vecchio: perché brutalmente rassegnato fin dall'inizio; perché, nonostante ogni talento, si arrende. Ed è proprio qui che si consuma la vera distanza fra lui e il narratore. Se il primo brama l'annullamento, il secondo è ancora e comunque fedele alla vita. Fedele alla vita: di nuovo, questo sembra il canto che esce dalle pagine del libro di Pallavicini, ricche di gioia e di dolore, ricche di risate e di tristezza, consapevoli che il qualcosa di bello sarà presto perso, ma che merita e meriterà sempre di essere guardato, e vissuto. Giorgio Fontana
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