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Un libro molto interessante che sottolinea la necessità di rivere alcune cose del capitalismo moderno. Nonostante Stiglitz sia schierato a favore della causa democratica mantiene un freddo distacco nel raccontare le strorture e gli avvenimenti degli anni novanta e l'euforia che hanno caratterizzato il decennio passato. Il libro concentra l'analisi sull'america ma, come più volte fa l'autore stesso, non mancano riferimenti all'Europa e al caso Parmalat. Assolutamente da leggere.
Recensioni
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Il libro è una lucida ricostruzione critica dell'economia statunitense nel boom degli anni novanta. L'intento del libro è "stimolare gli americani a non ripetere gli errori del passato, ma anche (...) aiutare i non americani a capire che cosa è andato storto da noi e a evitare che le stesse cose possano succedere altrove". L'autore affonda impietosamente il bisturi nelle contraddizioni di quegli anni e mostra in che misura i semi della "distruzione" a venire - sintetizzati simbolicamente nell'infausto caso della Enron, l'impresa dell'energia elettrica, vicina a Bush jr e al suo governo, portata ad esempio della crescita di fine secolo e poi naufragata nel mare di una clamorosa truffa - almeno in parte fossero stati gettati nell'età di Clinton. Com'è noto, l'autorevolezza di Stiglitz e l'importanza del suo contributo derivano non solo dal premio Nobel per l'economia, assegnatogli nel 2001 in virtù dei suoi studi sull'incidenza dell'asimmetria informativa nelle transazioni economiche, ma anche dal fatto che egli è stato nel consiglio dei consulenti economici del primo mandato di Clinton ed è poi diventato senior vice president e chief economist alla Banca mondiale. In questo contesto Stiglitz argomenta soprattutto come ex collaboratore del presidente democratico.
Con quell'esperienza lo stesso Stiglitz ha un rapporto di autocritica spietata, ma non liquidatoria. Vi si gettò, ricorda, dopo un quarto di secolo di ricerca a Stanford, per "vedere come andavano davvero le cose secondo il classico 'se potessi essere una mosca'" . Ma non rinnega il molto che ha imparato nella stanza dei bottoni e anzi si dice "profondamente fiero di ciò che hanno fatto il presidente Clinton e la sua amministrazione" per ovviare all'immenso deficit ricevuto in eredità dai governi repubblicani precedenti. Al tempo stesso, però, non solo ammette onestamente che il famoso successo nella riduzione del deficit poggiò anche su un paio di "errori fortunati". Soprattutto riconosce la subalternità che lui e i clintoniani ebbero (e che invero Nicholas Guyatt denunciò subito in Another American Century?, Pluto, 2000), rispetto ai due dogmi ereditati dall'egemonia ultraliberista di fine secolo: la "fede in mercati liberi da qualsiasi vincolo" e quella nella "crescita a buon mercato", basata sull'intreccio di "debiti esteri sempre più ingenti" e investimenti rapinosi in settori "deregolati" come le telecomunicazioni.
Contemporaneamente, aggiunge, la riduzione del deficit pubblico si trasformò in un'ossessione, da esportare ovunque mediante il Fondo monetario e la Banca mondiale, col risultato che "nella politica economica internazionale degli anni novanta, l'America ha anticipato il fervore ideologico e l'unilateralismo dell'amministrazione successiva". Un'amministrazione, conclude Stiglitz, che, con le sue politiche fiscali, ha comunque esaltato le magagne dell'economia di mercato incontrollata, sollecitando oggi "una nuova forma di economia globale, un nuovo insieme di politiche economiche in grado di assicurare una prosperità fondata su basi nuove e condivisa dai cittadini di tutto il mondo".
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