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Nell'ultimo capitolo della Storia della decadenza e caduta dell'Impero Romano, Gibbon descrive il quattrocentista Bracciolini seduto sul Campidoglio fra le rovine del Tempio di Giove, a meditare sull'instabilità delle cose umane. Ma questa citazione del braccioliniano De varietate fortunae si unisce, nella pagina di Gibbon, all'autoritratto dello storico inglese seduto nel medesimo luogo, quando concepì l'idea di scrivere la sua opera monumentale. Un simile corto circuito, nel quale il Settecento si unisce all'Umanesimo nella contemplazione dell'antichità e delle sue vicende, illustra esemplarmente il tema centrale del libro di Bowersock: la permanenza della tradizione classica nella cultura moderna. Proprio Gibbon ha così un ruolo essenziale: a lui sono dedicati tre saggi del volume e altri si riferiscono più o meno direttamente alla sua figura (come quelli, bellissimi, su Kavafis). Ciò che importa all'autore è "l'immaginazione storica" di Decadenza e caduta, contrapposta all'erudizione pura e spostata verso i confini dell'espressione drammatica e romanzesca: un'immaginazione affascinante, un'elegante imprecisione che disturbava Mommsen e ispirò a Beckford una paradossale stroncatura. Il rapporto fra modernità e cultura classica può infatti essere compreso in profondità solo facendo appello alla dimensione immaginaria, e Bowersock ne coglie con finezza le sfumature: quando esamina, per esempio, le radici del classicismo americano nell'Ottocento, con il suo crescente interesse per la Grecia antica; o quando rievoca le ultime ricerche del grande Arnaldo Momigliano (1908-1987), dedicate al pensiero religioso, ma anche ispirate alla propria eredità ebraica. Sprofondarsi nella storia antica, in questi casi, significa lavorare con i propri fantasmi, scrivere una pagina della propria autobiografia intellettuale.
Rinaldo Rinaldi
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