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Protagonisti di questo romanzo che risale ai tempi di Nerone sono due sfaccendati, il giovane Encolpio e il suo amante, l’efebo Gitone. Nella seconda parte del libro, c’è anche il vecchio poeta Eumolpo, ma la parte più famosa è la prima, il cui protagonista indiscusso è il liberto arricchito Trimalchione. Personificazione della volgarità più pacchiana, l’uomo ha già pronto il suo epitaffio: “Pio, forte, fedele, venne su dal nulla, lasciò trenta milioni di sesterzi e non ascoltò mai un filosofo”. Encolpio e Gitone capitano in una sua cena, dove tutti, in maggioranza liberti, cioè schiavi liberati, parlano di soldi ammucchiati e lo fanno in “latino plebeo” (a quanto pare), cadenzato dall’imprecazione “mehercules” (perercole). Ma i successi ostentati dei commensali non reggono il confronto con la colossale vanagloria che Trimalchione butta là a ogni piè sospinto, fornendo di ogni oggetto il suo valore monetario e decretando che solo “chi ha quattrini ha stima”. Nel romanzo, che ha un aspetto picaresco ante litteram, sono in auge il meretricio e l’amore socratico, tra schiavetti viziosi e postriboli, il tutto enunciato senza considerazioni morali: né il bene né il male sembrano esistere per Petronio, trincerato dietro una scettica assenza di giudizio, anche se indoviniamo che lo sguardo che getta sul proprio tempo, dove infuria la corruzione di ogni tipo, è impietoso.
Un capolavoro, pur nella sua tragica frammentarietà. Il vortice di grazie e disgrazie, avventure e disavventure che si abbatte su Encolpio, Gitone, Ascilto ed Eumolpo è travolgente, la descrizione del rozzo banchetto dell'ancor più rozzo Trimalchione degna del migliore esteta, la fantasia con cui Petronio costruisce il suo intreccio mirabile (pur richiamandosi alle trame tipiche del romanzo greco). Ma la componente migliore di questo testo è l'ironia con cui il suo autore filtra le vicende, l'ironia disincantata e fine d'un raffinato Arbiter Elegantiae, che traspare dalle sue parole e dal suo latino. Meraviglioso!
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